Al Pd serve cambiare registro al più presto. Se servirà
Fino all’agosto scorso, durante i 14 mesi del Governo Conte, il Pd si è contrapposto al modo d’essere “salviniano” – costruito cioè sulla rabbia trasformata in sistema di rapporto tra i cittadini e sulla comunicazione distraente h 24 – con azioni, scelte, elaborazioni culturali, che avevano avviato la ripresa di quella connessione sentimentale con gli italiani che mancava da tempo. Lo abbiamo potuto notare durante le elezioni europee e, soprattutto, in una parte rilevante dei Comuni nei quali si è votato tra maggio e giugno, perché forse gli italiani apprezzano ancora il Pd, solo se é il luogo della visione di prospettiva e non quello delle tattiche da tweet e da post.
Renzi, da amante del calcio, ha capito che la “squadra Pd” era forse in grado di costruire un sempre maggiore e gradevole possesso di palla, ma senza riuscire quasi mai a tirare in porta, perché incapace di essere leader di uno schieramento realmente alternativo. D’altra parte, come i romani che lo frequentano da sempre, sanno benissimo, Zingaretti ha costruito il proprio percorso politico/amministrativo sul bel gioco, ma non sulla vittoria finale del campionato. E Matteo da Firenze – che ha fatto una porcata, non vi è dubbio, scappandosene via al grido di “Macron c’est moi!” – ha confermato il suo modo d’essere: non è un fine palleggiatore, ma uno capace di sfondare le difese, quando serve, anche con un fallo di mano o un calcione, se non visto dall’arbitro. Il tutto senza sorprese, se non per Zingaretti stesso, che ha subìto inerme un contropiede che quasi tutti avevano pronosticato.
Oggi, tra tensioni interne al Governo, crisi delle quali non si ha l’unica responsabilità (l’Ilva) ma che bussano inevitabilmente alla porta della compagine in carica, tasse forse giuste per obiettivi ma indigeribili ai più (sulla plastica, sullo zucchero, sulle auto aziendali), atteggiamenti difensivamente caricaturali come quelli di Conte ed aggressivamente caricaturali come quelli di Di Maio, penultimatum giunti da chi, come Zingaretti, Orlando e Franceschini, non ha mia posto un ultimatum vero in vita sua, è impossibile non notare come il re sia nudo.
Perché il problema di fondo non sono più le tensioni tra Ministri e Partiti e neppure l’aggressività rigenerata di Salvini: il problema vero è l’assenza di un’anima per il Pd. E questo nel Pd sta provocando il panico da fuggi fuggi, ben più del risultato pesante dell’Umbria e di quello temuto dell’Emilia-Romagna.
Infatti il Pd, scegliendo di entrare in un Governo totalmente in continuità (salvo le salvinate) con quello precedente, privo di un vero programma riformista, guidato da un personaggio oscuro ora come allora, ha rinunciato a divenire il luogo di una nuova elaborazione culturale fieramente contrapposta al pensiero unico salviniano. Dimensionata così la sintesi è estrema, ma forse non troppo lontana dalla realtà.
Perchè, diciamocelo fino in fondo, senza nasconderlo, il Governo si è costituito solo per impedire a Salvini di vincere le elezioni (Renzi, primum, dixit). E oggi – ma guarda un po’! – è invece lo stesso Governo che, quotidianamente, sta creando le condizioni perché Salvini vinca ancor più largamente (e da posizioni ancor più di destra) le elezioni. Lo sanno bene i tanti imprenditori i quali, anche se con storie personali gloriosamente collegate al centrosinistra, oggi non si vergognano di invitarlo a pranzo (e di omaggiarlo), neppure più trincerandosi dietro il suo ruolo di Governo.
Sta accadendo senza che a contrapporglisi vi sia uno schieramento con un’anima, visto che il Pd si è ritirato in buon ordine in una ridotta, purtroppo costruita sulla conservazione del potere (questo è quel che pensano la maggioranza degli italiani) e non sui suoi valori, magari finalmente aggiornati ed in grado di affrontare, senza inutili semplificazioni, la complessità delle problematiche attuali.
É la stessa differenza che passa tra un trattore (che traccia lentamente e faticosamente il solco) e un monopattino elettrico (che fila veloce quando trova la pista ciclabile diritta e liscia, ma che si impantana e si blocca appena esce di strada).
Il PD ha scelto di essere un monopattino, moderno, rapido, divertente. Sbagliando. Perché mentre era necessario contribuire ad elaborare (rielaborare) un pensiero di carattere collettivo, in grado di tracciare (ritracciare) le coordinate di un mondo del lavoro privo di contorni stabili e di una società ormai neppure più liquida, si è scelto di essere rapidi e moderni. E cioè di rivolgersi non alle donne ed agli uomini incerti ed impauriti di questo Paese, ma di bypassarli, dedicandosi alla scelta più immediatamente percepibile come vincente.
E, peggio, si è scelto non di ristabilire una connessione sentimentale con i tanti italiani “di sinistra” che nel M5S hanno trovato le risposte semplici che per troppo tempo si sono evitate con la sufficienza antipatica che caratterizza tanti dirigenti del Pd (la sindrome “da primo della classe”), ma di entrare in connessione solo con i vertici di quel movimento così facile da manovrare.
E, per aggravare il tutto, a loro – a Conte, Di Maio, Grillo, Casaleggio -, per far prima non si è neppure provato a chiedere di spiegare il perché delle scelte dei mesi di Governo con Salvini e delle tante forzature culturali degli ultimi 11 anni.
No, il Pd si è seduto al (loro) tavolo da gioco e ne ha subito accettato gli schemi (i loro), inconsapevole delle conseguenze. E, così facendo, si è esplicitata l’inadeguatezza di un’intera classe dirigente. A Roma ma anche a Cesena e Forlì e Bologna, visto che anche da noi, nel gruppo dirigente del Pd, sono stati tantissimi coloro che hanno applaudito la svolta agostana, relegando nel silenzio (colpevole) coloro che hanno intravisto i pericoli, ma senza polemizzare pubblicamente.
Non a caso Pierluigi Bersani, nelle settimane che hanno preceduto la formazione del Conte 2, si augurava che “non abbiamo prenotato il boomerang”.
Ora il boomerang è lì e ne sentiamo già il sibilo minaccioso. Eppure restiamo immobili, augurandoci che un salvifico colpo di vento lo allontani dall’impatto che manderebbe a terra la sinistra per i prossimi lustri e che forse condannerebbe il Paese a pericoli letti solo nei libri di storia.
Come evitare l’impatto?
Non lo so, lo confesso. So però che lo stesso potrebbe giungere già con le elezioni regionali del 26 gennaio 2020. E il solo pensiero che possa accadere, getta nello sconforto tanti, consapevoli di portare su di sè il peso di una forza costituita sul sudore e le speranze di generazioni di riformisti emiliano-romagnoli di cui, non solo da agosto ad oggi (ma perdendo letteralmente la testa, da agosto ad oggi), si è scelto di dimenticare la storia.
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