Fino a pochi anni fa ho vissuto in campagna. Quella che ci vogliono venti minuti per andare a fare la spesa e che quando nevica devi chiamare il vicino col trattore perché ti liberi il vialetto. L’infanzia in campagna ha i suoi pro e i suoi contro. Ci sono i prati dove giocare, poco traffico da cui guardarsi e in estate si sta freschi. Ma si è lontani da tutto. Dalla scuola. Dai negozi. Dal cinema.
Il cinema, per un bambino che vive in campagna, è un’esperienza. Ci si va poco (e comunque quando ero piccolo io ci si andava meno che adesso) e ogni volta si sceglie con attenzione il film da vedere, per non giocarsi il bonus. I primi film che ho visto erano targati Disney, perché ogni bambino nato tra gli anni ’80 e ’90 è cresciuto a suon di filmoni di Natale targati Disney. Non si scappa.
Un giorno però a scuola sentii parlare di un nuovo film, un po’ strano, di quelli che sono mezzo film e mezzo cartone. Pagemaster, si chiamava, e il protagonista era quel Macaulay Culkin che ogni bambino nato tra gli anni ’80 e ’90 ha desiderato poter essere dopo aver visto Mamma ho perso l’aereo. Non racconterò di quanto tempo ho impiegato per convincere mio padre a portarmi al cinema, così fuori stagione (il Natale era ancora lontano), fatto sta che alla fine ci riuscii. Avevo otto anni e il film mi sembrò bellissimo.
Nel film, il giovane Macaulay Culkin è un ragazzino un po’ sfigato che ha paura di tutto e un giorno, a causa di un violento temporale, è costretto a rifugiarsi in biblioteca. Qui viene travolto da una strana onda colorata che lo trasforma in un cartone animato. Questa in soldoni è l’inizio della storia. Non proprio un grande inizio, ma poi le cose migliorano.
Macaulay Culkin in versione cartone animato fa conoscenza di tre libri antropomorfi, che rappresentano i tre generi cardine della letteratura per ragazzi: Horror, Avventura e Fantasy. Nel più classico dei percorsi di formazione, il protagonista dovrà superare tre prove legate a ciascuno dei generi per poter tornare alla realtà. A parte la trama esile e dialoghi decisamente scontati (ma allora avevo otto anni e non me ne poteva fregare di meno), la pellicola brilla per i richiami ai classici della letteratura – soprattutto anglosassone – che esaltano il giovane spettatore e riportano all’infanzia l’adulto accompagnatore. 20.000 leghe sotto i mari, L’isola del tesoro, Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Signor Hide, e poi I viaggi di Gulliver, Pinocchio, Il meraviglioso mondo di Oz, Moby Dick e Alice nel paese delle meraviglie. E la lista continua, in uno psichedelico mosaico di rimandi letterari, in una citazione continua. C’è tutto quello che un ragazzo dovrebbe leggere ed è tutto rimescolato in uno strano viaggio ricco di situazioni ed azione, a dimostrazione che la lettura è prima di tutto un’avventura.
Uscito dalla sala ho sentito il bisogno di leggere qualcosa. Qualsiasi cosa. Per quanto il film fosse del tutto trascurabile (visto con gli occhi di un adulto), è servito al me-bambino per capire una volta per tutte che leggere è figo, che ci si diverte e che vale la pena conservare un po’ di tempo, ogni giorno, per leggere qualche capitolo di un nuovo romanzo. Perché la lettura è anche questo: ritualità. Ne parla divinamente Italo Calvino nel suo Se una notte d’inverno un viaggiatore. La lettura passa anche dalla posizione che si assume con il libro tra le mani, dalla stanza, dalla poltrona/sedia/amaca/dondolo/tappeto/pavimento che scegliamo, che occupiamo. Uno spazio e un tempo per ogni occasione.
Per come la vedo io questa scelta è sempre stata frutto di una seria riflessione. Ci sono giorni che mi va di leggere in camera, sul letto, oppure in terrazzo, magari fumando. Ogni libro poi ispira una posa, un ritmo e una riflessività diversa. Ci sono i libri da leggere in tram e quelli giusti per la spiaggia, quelli che ritrovi nei momenti di noia e quelli che riprendi perché ti sono mancati. Un libro alla volta, per quel momento particolare.
Ma da oggi c’è Kindle, una specie di tablet (ma non è un tablet! Lo so, lo so, non linciatemi, amici geeks) su cui ciascuno può caricare la propria biblioteca personale. Centinaia di libri tutti concentrati nello stesso apparecchio, che pesa poco più di un etto. I fratelli Karamazov, Il Signore degli anelli, tutta la saga di Harry Potter. È possibile portare con sé l’intero carico senza mai superare i cento grammi. Una rivoluzione.
E poi lo schermo, che non è come quello dei pc, che non affatica la vista perché usa un’innovativa combinazione di inchiostro e riflette la luce naturale come un vero foglio di carta. E – notizia meravigliosa! – non più un albero verrà abbattuto.
Tutto fantastico, ma non credo che abbraccerò questa nuova tecnologia. Non in tempi brevi. Perché sono un feticista, e la carta sotto i polpastrelli la voglio sentire. Non trovo nemmeno tutta questa comodità nel fatto di poter leggere dove mi pare. Già lo faccio. E non mi sento in colpa per quei poveri alberi che perderanno la vita per permettermi di leggere l’ultimo tomo di Stephen King, perché non è vietato utilizzare la carta. Dovrebbe essere vietato sprecarla. Quindi smettiamo di pubblicare biografie di calciatori o i libricini inutili di scrittori ostaggio delle case editrici che non lasciano nulla, a parte l’irritazione per i soldi spesi. Cominciamo a riciclare questa spazzatura e pubblichiamo solo libri che meritino di essere letti. Ci guadagneremmo tutti, alberi compresi.
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