Quando nel 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituì il Giorno della Memoria, la ricorrenza internazionale che si celebra ogni anno come momento per commemorare le vittime dell’Olocausto, fu individuata la data del 27 gennaio perché in quel giorno, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’offensiva contro l’esercito tedesco verso la Germania, liberarono il campo di concentramento nazista di Auschwitz.
Lo United States Olocaust Memorial Museum di Washington ha calcolato che oltre 15 milioni di persone persero la loro vita come risultato diretto dei processi di “arianizzazione” promossi dal regime nazista tra il 1933 e il 1945, politica che si accanì in modo virulento contro gli ebrei (in 5-6 milioni furono sterminati), gli zingari, i disabili, i non-ariani (soprattutto slavi), i dissidenti politici (socialisti, comunisti, massoni e le loro famiglie, oltre un milione e mezzo le vittime), gli indesiderabili (omosessuale, dissidenti religiosi). Tra i dissidenti politici vanno considerati 30.000 deportati politici italiani e 40-50 mila gli Internati Militari Italiani (IMI) che trovarono la morte in quegli orribili luoghi.
Fortunatamente molti altri riuscirono a sopravvivere, furono liberati e ritornarono presso le proprie famiglie. È il caso del forlivese Gildo Cortesi (1916-2009) di cui possiamo raccontare la storia inedita della sua liberazione così come l’ha lasciata scritta. Una testimonianza di assoluto rilievo che il figlio Giorgio ha conservato e che mi ha fornito nei giorni scorsi.
Giorgio Cortesi racconta: “Mio padre Gildo nel settembre 1939, allo scoppio della guerra, fu richiamato come geniere nella 97a Compagnia RT 3° Genio, località Trucchi di Cuneo, dove rimase fino all’aprile 1940. Tornato a Forli dopo il congedo, trovò lavoro presso l’Aeronautica Caproni di Predappio, nella succursale avviata all’areoporto Ridolfi di Forlì dove venivano assemblati gli aerei i cui pezzi venivano prodotti nel paese di Mussolini. Mio padre svolgeva le funzioni di assemblatore delle bobine nelle dinamo (conservo 3 sue buste paga dell’epoca). Nell’agosto 1944, mentre stava tornando a casa in bicicletta dal lavoro, fu fermato dai soldati tedeschi e portato alla caserma di via Romanello. Tre giorni dopo fu caricato su un treno e deportato in Germania. Nel lager di Aken Elbe rimase 9 mesi (senza poter comunicare con i familiari). Ritornò a casa, dopo la liberazione, nel maggio del 1945. Come orfano di guerra e deportato, conclude Giorgio Cortesi, riuscì a farsi assumere al Comune di Forlì nel 1946-47 dove fu impiegato per 25 anni all’ufficio Leva e Pensioni (suo capoufficio era il dott. Miserocchi), poi passò all’ufficio elettorale negli ultimi anni prima della pensione”.
Nel suo testo Gildo Cortesi descrive le fasi della liberazione e gli avvenimenti dei giorni successivi. In questo contesto mi limito a riportare la prima parte della testimonianza lasciando a un secondo momento la pubblicazione del resto. Ecco cosa ci ha lasciato scritto: “Dopo alcuni mesi di gelido inverno trascorsi nelle baracche del lager, era arrivata per noi deportati, con il lento passare delle ore, la più gradita primavera. E quel giorno d’aprile del 1944 ad Aken Elbe sarebbe rimasto eterno nel mio ricordo come pagina di storia vissuta nella realtà di una guerra che sembrava senza fine. Dopo una notte insonne illuminata dai lampi che accompagnavano lo scoppio delle bombe sganciate dagli aerei alleati sulla vicina città di Dessau, a meno di 15 chilometri dal nostro campo di concentramento nazista, ed il fragore delle artiglierie che aumentava incessantemente, quel mattino, ci apparve drammatico e imprevedibile fin dalle prime luci dell’alba. Qualcosa di tremendo stava per accadere da un momento all’altro. Il terrore aumentava in tutti noi rinchiusi in quel luogo e lo vedevamo impresso negli occhi esterrefatti cercando di capire quanto stava succedendo all’interno del lager. Attorno alle baracche c’erano soldati tedeschi con le mostrine delle S.S. armati di mitra e pistole pronti a sparare da un momento all’altro. Aspettavano solo l’ordine dal loro comandante avevano formato un cerchio e stavano avanzando mentre aumentava il crepitio delle mitragliatrici e il tuono dei cannoni nelle zone circostanti. In quei tremendi attimi di attesa pensando alla morte che ci aspettava, trovammo la forza di buttarci a terra e scavare delle buche con sassi appuntiti e con le stesse mani per trovare un riparo qualora fosse iniziata la sparatoria senza avere un’altra via di scampo, anche perché i soldati ci avrebbero colpito inesorabilmente e con estrema facilità. L’imprevisto accadde all’improvviso, miracolosamente. Fu come una ventata che travolgeva un evento già scontato per lasciar posto allo stupore che allontanò soprattutto la paura.
Cos’era successo in un tempo così breve? Era arrivata una motocarrozzetta militare con due soldati tedeschi che urlando: “Rauss, rauss, rauss…” incitavano i loro camerati di guardia al lager a salire velocemente sugli automezzi di cui disponevano per partire nella direzione opposta all’avanzare dei soldati alleati che stavano circondando la zona e che avrebbero certamente fatto prigionieri i componenti del reparto delle S.S. di guardia a noi deportati. Effettivamente si udiva il crepitio delle armi da fuoco provenienti dalla boscaglia che attorniava la zona. Erano certamente i colpi che sparavano i combattimenti americani che stavano per liberarci dall’oppressione subita in una terra straniera al centro di una guerra che aveva travolto tante nazioni e provocato distruzione e morte per un tempo interminabile di violenza e di crudeltà. Per noi arrivava finalmente quell’insperata libertà! Era la fine di un martirio per circa 300 persone di ogni nazionalità: russi, polacchi, belgi, olandesi, francesi, italiani. Uomini e donne di tutte le età che avevano vissuto lunghi mesi come prigionieri e carcerati, tenuti all’oscuro delle vicende che avvenivano nel mondo.
A distanza di tempo da quegli avvenimenti mi trovo a raccontare quanto accadde e fare nel contempo delle riflessioni che si sovrappongono alla reale situazione di quei momenti veramente indescrivibili. Attorno a noi era calato un cupo silenzio. La sorpresa di avvertire i liberatori così vicini ci aveva reso muti e attoniti. Poi udimmo finalmente un rumore di mezzi cingolati che proveniva dall’interno del bosco e capimmo che doveva trattarsi di una colonna militare, certamente delle truppe alleate che stava avanzando per conquistare anche la zona dove si trovava il nostro campo di concentramento. Si verificò un tripudio di gioia che ci affratellò in un abbraccio spontaneo. Una felicità indescrivibile! Quel giorno iniziato così brutalmente si stava trasformando in un finale che portava la fine di tutte le preoccupazioni e soprattutto portava un’allegria dimenticata per tanto tempo.
Come una valanga inarrestabile tutti noi correndo ci buttammo sulla strada per andare incontro a quei mezzi militari che si stavano avvicinando e che circondammo al loro apparire con grida festose. Era uno spettacolo da far venire le lacrime agli occhi! Quelli erano i nostri liberatori! Rispondevano ai nostri saluti agitando le braccia e con le due dita aperte a forma di V per indicare la vittoria sempre più vicina. Rimarrà impressa nella mia memoria la scena apparsa in quel fatidico giorno. Alla testa di quella colonna americana di mezzi corazzati, fiancheggiata da truppe a piedi, c’era una jeep col comandante che sedeva a fianco del conducente tenendo le gambe distese in avanti sopra il cofano mentre parlava al telefono probabilmente con qualche altro responsabile del reparto che seguiva. Si fermò per avere informazioni anche da noi e un nostro compagno, che conosceva abbastanza la lingua inglese, riferì del pericolo che ci sarebbe stato col passaggio della colonna militare sopra un ponte che era stato minato dai tedeschi poco prima della loro ritirata. Allora quel comandante riprese il telefono installato sulla jeep, munita di antenna e altri congegni radiotrasmittenti, e poco dopo vedemmo sopraggiungere un grandissimo automezzo munito di un ponte in ferro che servì in alternativa all’altro pericoloso e sul quale transitarono tutti quanti.
Poi ad un tratto udimmo il rombo di aerei da caccia che si abbassarono in picchiata sopra il paese lanciando qualche bomba al centro come per annunciare la successiva offensiva. Erano soltanto tre ma servirono certamente ad impaurire gli abitanti che, sebbene armati e dopo aver lavorato per diversi giorni per piantare grosse travi all’ingresso della via principale per sbarrare il passaggio ai soldati alleati, decisero di arrendersi malgrado gli ordini di Hitler che imponevano a tutti, uomini e donne, di combattere ad ogni costo per resistere all’avanzata delle truppe avversarie. In segno della loro resa comparve allora una grande bandiera bianca che veniva sventolata dall’alto della torre che si profilava sopra i tetti delle case. Così anche Aken Elbe era caduta e la fine della guerra sarebbe stata più vicina”.
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