Indignazione, se non rabbia. Sconcerto. Nel peggiore dei casi rassegnazione.
Questi i sentimenti che la vicenda di Carolina ha suscitato. La ragazza 14enne di Torino si è buttata dal terzo piano del palazzo in cui abitava con i genitori. Nella sua stanza sono stati trovati alcuni biglietti, un patchwork disordinato che a ben vedere è una lettera d’addio. Parole di affetto per le amiche più strette e per i famigliari e un vero e proprio j’accuse per i suoi stalker – perché di questo si tratta. Al gruppo di ragazzi (di età tra i 13 e i 15 anni) si attribuisce la responsabilità di “morte come causa derivante da altro reato”.
Nelle ore immediatamente successive a una tragedia si cerca di individuare un colpevole, un espediente che viene adottato automaticamente, un tappo di sughero per chiudere una falla che potrebbe farci affondare in un mare di sconforto.
In seguito al terribile gesto di Carolina, ci si è scagliati immediatamente contro il gruppo di ragazzi suoi aguzzini, responsabili di reiterate violenze psicologiche, quelle che fanno più male. E ben presto ci si è interrogati sulle modalità con cui questa violenza è stata espressa.
Il web, i social network, sono tutti strumenti su cui è stato diffuso il video che mostrava Carolina in condizioni pietose, ubriaca e in lacrime ad una festa. Un errore di gioventù che le è valso gli insulti delle amiche e gli sfottò dei coetanei. Attraverso Facebook Carolina è stata messa alla gogna, ridicolizzata al punto da non poterne più.
Non è il primo episodio dal finale tragico che passa per la rete. Spesso si sente dire che i social network vengano utilizzati per atti di violenza a distanza. Cyber-bullismo. Virtual-stalking. Di fronte a queste prese di posizione i benpensanti che affollano le pagine dei quotidiani, che occupano i salotti televisivi, che intasano le trasmissioni radio, si lanciano in invettive volte a screditare il mondo dei social network, liquidandoli come cloache di futilità, armi di distruzione lasciate in mano a incapaci. E si sentono discorsi su come arginare comportamenti deviati sulla rete, in modo da evitare il ripetersi di certe situazioni.
A tutti questi soggetti non posso che dire: non succederà mai.
Perché forse si è perso di vista il vero problema.
Facebook, così come Twitter, o qualsiasi altro social network non è altro che un luogo di socializzazione. Ciascuno ha diritto a personalizzare un piccolo spazio, una specie di monolocale in un grattacielo enorme, inserendo foto, filmati, contenuti di vario genere. Contenuti che vengono condivisi con tutti coloro che hanno una stanza nello stesso grattacielo. Ora, non è possibile filtrare i contenuti pubblicati (lo si può fare solo in piccola parte) e a dirlo non è un senso della morale dalle maglie un po’ troppo larghe, ma una legge del 2003 che solleva i provider dalla responsabilità dei contenuti che ospita.
Questo non vuol dire che dobbiamo rassegnarci al ripetersi di suicidi assurdi come quello di Carolina. L’unico modo di evitare altre tragedie è agire a monte e non a valle.
Si associa spesso il web, la famigerata “rete”, ad un luogo di ritrovo virtuale. Per noi italiani, che da tempo abbiamo perso il culto della piazza, rappresenta un surrogato accettabile. E non è colpa di nessuno se c’è chi sceglie di parlare dell’ultima puntata della serie tv preferita o del risultato delle elezioni amministrative o se ci si incontra per prendere per i fondelli un amico o un conoscente. Ognuno può dire quello che gli pare, sperando rimanga nei limiti del rispetto dell’altro. Ma non sempre succede. In piazza come sul web. Sta a ciascuno di noi stabilire quali sono i limiti oltre i quali non dovremmo spingerci, capire che abbiamo a che fare con persone e non con personaggi di una serie televisiva.
Non è la prima volta che una ragazza è spinta a togliersi la vita e non sarà l’ultima.
Finché i ragazzi lasciati continueranno a rivendicare diritti di proprietà.
Finché la televisione continuerà a mostrarci solo il modo sbagliato, quello estremo e superficiale, di vivere l’amore.
Finché continueremo a non saper distinguere tra la realtà e la fiction ad ogni costo.
Finché continueremo a convincerci che il problema è Facebook, e non chi ci scrive sopra.
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