Da più di trent’anni oltre 35 piante di cachi continuano a dare i propri frutti senza che nessuno li raccolga. Proprio per questa e altre particolarità intendo proporre questa storia nel prosieguo degli articoli dedicati ad alberi del nostro territorio che si distinguono per imponenza, età o altre caratteristiche.
Le piante in questione vegetano in una striscia di terra che si è formata nel 1989/1990 in seguito all’avvio del cantiere per la costruzione dell’Asse di Arroccamento (via del Tricolore) ed erano presenti già prima della realizzazione della grande arteria viaria. Il terreno è situato in adiacenza al Cimitero Monumentale, confina dall’altra parte proprio con la strada ed ha il fronte sulla via Ravegnana. Da allora più nessuno ha provveduto ad “accudirle”: potarle, arare la terra sottostante, estirpare le erbacce, eliminare l’edera che da tempo ha aggredito i fusti, tanto che alcuni alberi si sono già seccati e diversi sono tuttora in condizioni precarie. Nonostante tutto ciò anche quest’anno la quantità di frutti arrivata a maturazione è stata buona, è ancora tutta sui rami e ancora una volta non sarà raccolta, nonostante la Romagna sia la “Terra dei cachi”. Niente a che fare con la canzone di Elio e le Storie Tese presentata al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella graduatoria finale e vincitrice del premio della critica. In questo caso il testo racconta la vita e le abitudini dell’Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti. Mentre la denominazione “Terra dei cachi” nel nostro caso sta per l’elevata produzione di questo frutto.
Romagna terra dei cachi
Il 26 ottobre 2017 un articolo pubblicato sul settimanale faentino Sette Sere, dal titolo “Romagna terra dei kaki, storia e proprietà di questo frutto autunnale”, mise in evidenza una peculiarità della Romagna e cioè che detiene il primato della coltivazione di questo frutto insieme all’Emilia, alla Campania e alla Sicilia.
Le prime piante di cachi giunsero in Europa alla fine del ‘700, quando il direttore inglese del Giardino botanico di Calcutta ne portò alcuni esemplari nella madre patria. Nel resto d’Europa e in Italia, iniziò a essere conosciuto solo nella seconda metà del XIX secolo. Un albero di caco fu piantato nel 1870 a Firenze, presso il Giardino botanico di Boboli, e altri esemplari furono messi a dimora nel 1879 all’Orto botanico di Palermo, dove ancora sopravvivono. Inizialmente, era considerato solo come pianta ornamentale e fu molto utilizzato in parchi e giardini, in ogni parte d’Italia. Solo più tardi si diffuse l’abitudine di mangiarne i frutti e, di conseguenza, di intensificarne la coltivazione.
Nell’articolo citato si può leggere che il caco è “da sempre considerato il ‘pane degli dèi’. Il suo arancio intenso colora i campi e i cortili fino al tardo inverno. Sono pennellate espressionistiche e calde che diventano zuccherine e tanniche quando assaggiate. Si sta parlando, ovviamente, del Diospyros kaki, meglio noto come kaki o cachi. In Emilia e soprattutto in Romagna registra la sua prima importante presenza attorno al 1916”. Da allora si è verificata una crescita costante della coltivazione nei comprensori di Faenza, Imola, Ravenna, Forlì, Cesena e Rimini.
“Oggi, questo tipico frutto del tardo autunno”, scrive il redattore di Sette Sere, “è forse ritenuto meno nobile di altri suo simili ma rappresenta comunque una buona leva, alimentare ed economica, per la regione. L’Emilia-Romagna, assieme alla Campania, è leader nella produzione con circa 20/25mila tonnellate. Proprio nella terra del Passatore è stata creata una varietà chiamata, non a caso, ‘Loto di Romagna’. Altre famose tipologie di questo frutto sono il ‘kako mela’ e il ‘kako vaniglia’. I primi si possono gustare anche acerbi essendo molto meno tannici di quelli normali, i secondi invece è bene farli maturare un po’ di più. I ‘vaniglia’ hanno una polpa bronzo molto dolce e con semi”. Prosegue ancora l’articolo: “Per capire quando il frutto del kako è pronto per essere gustato basta guardare che la buccia, di un colore arancio tendente allo scuro, sia sottile e intatta e contemporaneamente sia tenero al tatto. Quando sono gialli e molto duri sono invece acerbi ed è meglio, per il bene del palato, non provare a morderli. Se acquistati acerbi un modo per velocizzarne la maturazione è quella di disporli alternati, ma non sovrapposti, alle mele in una cassetta di legno e in un luogo caldo e buio. La maturazione delle mele, infatti, rilascia acetilene ed etilene, gas assorbiti dai cachi poi ‘trasformati’ in zuccheri che li rendendo ancora più dolci.
Per quanto riguarda le caratteristiche nutrizionali ogni frutto è ricco di fibre (circa 6 grammi) e di betacarotene, antiossidante per eccellenza. Questa combinazione lo rende un lassativo. Anche se ricchi di zucchero, i kaki apportano circa 65 calorie ogni etto e contengono pectina (regolatore naturale della glicemia), sono antiossidanti, importanti nella crescita dei bambini, potenziano il sistema immunitario e sono molto utili per la vista e per il benessere della pelle. La polpa, molto allappante, è ricca di tannini (antiossidanti), di vitamina C, potassio e calcio. Caratteristiche che ne fanno validi aiuti contro le infiammazioni intestinali e migliorano anche il funzionamento epatico. Inoltre possiedono tante vitamine B agendo come antinfettivo, antinfiammatorio e antiemorragico”.
L’articolo conclude sostenendo che “In cucina il kako è considerato un perfetto arrivo di fine pasto. Un frutto dolce ma anche particolarmente consistente che si mangia, guarda caso, con il cucchiaio. Ma non solo. Versatile il suo utilizzo in preparazioni particolari e innovative dall’antipasto ai secondi oppure in gustose salse”.
L’albero di cachi
È stato definito “l’albero delle sette virtù“ dato che la sua intensa ombra offre piacevole ristoro; gli uccelli nidificano volentieri tra i suoi rami; è inattaccabile dai parassiti; il suo legno è un ottimo combustibile; le foglie in autunno assumono sfumature stupende, tanto da essere utilizzate come decoro; infine, le stesse foglie, una volta cadute, generano un efficace concime per il terreno.
L’albero di cachi, che vive in media 30-40 anni, comincia a produrre i frutti solo a partire dal quarto anno di vita, la loro maturazione avviene tipicamente in autunno, nei mesi di ottobre e novembre, quindi quando la pianta ha ormai completamente perso tutte le foglie e risulta completamente spoglia. È un albero molto interessante per l’ombra che genera un microclima sotto la sua chioma, per i rami ottimi per ospitare nidi, per la longevità e resistenza alle malattie e per la spettacolare presenza di frutti gialli, poi arancioni e infine rossi che in ottobre spiccano sui rami dopo la caduta delle grosse foglie, maturano e cadono a terra in inverno per la gioia di molti animali e uccelli stanziali. È una pianta molto resistente, che non necessita di trattamenti antiparassitari, per questo viene considerata “naturalmente biologica”. Già nel 1939 l’agronomo Alessandro Morettini, nel suo articolo “La coltura dei diospiri o cachi” pubblicato sulla Rivista della Società Toscana di Orticoltura, ne parlava ricordandone la pregevolezza “dal punto di vista decorativo, per la forma armonica della chioma, la foltezza e la lucentezza del suo bel fogliame che, dal colore verde durante l’estate, passa al rossastro nell’ottobre” quindi “per la forma e colorazione dei frutti che a maturazione ricordano le arance”. Una pianta interessante anche sotto il profilo economico “per la quantità e la qualità della frutta che alcune varietà producono” e “per l’epoca in cui giungono a maturazione”.
Curiosa la biologia o meglio la sessualità del diospro i cui bei fiori a quattro petali sbocciano a maggio-giugno e possono trasformarsi in frutti (con o senza semi) più grandi e belli se vento e insetti favoriscono l’impollinazione incrociata. Le api visitano i fiori di cachi per raccogliere sia nettare sia polline.
Le varietà più note sono il Tipo e il Loto di Romagna, che vengono coltivati in particolare a Santarcangelo di Romagna e a Poggio Torriana, in provincia di Rimini, il Fuyu, il Kawabata e i Suruga. Il Loto, per tradizione, veniva raccolto acerbo e lasciato a maturare accanto alle mele, grazie all’etilene di cui queste ultime sono ricche. L’alto contenuto di sostanze tanniche diminuisce ogni giorno di più una volta staccato il frutto dall’albero. In questo modo si riduce l’effetto allappante dovuto alla presenza di tannino, prezioso per la salute, in quanto astringente, ma fastidioso in bocca. Anche adesso la raccolta dei frutti non ancora maturi inizia in autunno. Successivamente vengono stoccati in magazzino e poi posti in maturazione durante il periodo autunno-invernale. I cachi, una volta maturi, vengono immediatamente messi in vendita.
Si scrive cachi o kaki?
La studiosa Annalisa Nesi in un lungo articolo dal titolo “Un frutto esotico in orti, giardini e… al supermercato: il Diospyros kaki” (dal greco letteralmente ‘cibo degli dei”), pubblicato sul sito dell’Accademia della Crusca, fornisce alcune informazioni su questa pianta esotica della famiglia delle Ebenacee. Nella premessa del testo conferma che della pianta dai “primi del Novecento si iniziò ad avere una significativa coltivazione in Romagna, soprattutto nel forlivese, e in Campania, nel napoletano e nel sarnese; luoghi dove, oltre alla Sicilia, si ottiene ancora oggi gran parte della produzione italiana.
Successivamente l’autrice fornisce ampia documentazione che ci fa capire se chiamare i frutti ‘cachi’ o ‘kaki” e annota: “Il nome scientifico è composto dal greco diòspyros ‘frutto degli Dei’ (letteralmente ‘frumento di Giove’) e dal giapponese kaki. Nell’uso dei botanici si trova in modo stabile kaki, come corrispondente volgare del nome scientifico linneano, ma in italiano si scrive comunemente cachi. La denominazione vale per l’albero e per il frutto. La voce nella forma cachi è attestata la prima volta nel 1836 e caki nel 1892. In precedenza si ha kaki nel 1826 in un trattato del botanico Gaetano Savi e nel 1827 nella traduzione dal tedesco di un manuale di storia naturale. Già Panzini all’inizio del Novecento – in quel momento doveva esserci un’oscillazione nella rappresentazione grafica, oltre alla spinta all’adattamento di parole straniere alla grafia italiana – inserisce cachi nel suo Dizionario moderno come forma da preferirsi; poi rinvia a kaki, voce straniera. Del resto anche più tardi vediamo alternarsi le due forme, seppure a distanza di tempo, anche presso lo stesso autore; ad esempio il noto agronomo Alessandro Morettini intitola un suo breve articolo Coltura di diospiri o cachi (1939), e poi un suo volume Il kaki o diospiro (1949). Diversi dizionari moderni segnalano anche la formagrafica kaki, ma rara”.
Il caco albero di pace
Il 9 agosto 1945 la città giapponese di Nagasaki venne bombardata con ordigni atomici
provocando la distruzione e la morte di qualsiasi creatura vivente. Sotto le macerie sopravvissero però alcuni alberi e, tra questi, uno di cachi molto indebolito e malconcio che ritornò in buona salute dopo essere stato curato dal botanico Masayuki Ebinuma.
Ebinuma ritenne che la forza di quella pianta non era altro che un potente messaggio di pace da divulgare in tutto il mondo in modo da ricordare l’inutilità di qualsiasi guerra. Dal frutto cresciuto di quella pianta, prelevò alcuni semi, e nel 1994 riuscì così a farne nascere delle nuove “di seconda generazione”. Poi cominciò ad affidare le pianticelle ai bambini che visitavano il museo del bombardamento atomico, chiedendo loro di farle crescere perché diventassero simboli di pace.
Nell’agosto 1995, per ricordare l’insensato orrore delle guerre, nacque il progetto “Revive time – L’albero del cachi”, che ha cercato e cerca “genitori” adottivi a cui affidare le pianticelle. Un progetto che si è sviluppato in tutto il mondo, iniziando da Nagasaki e proseguendo sino a scuole di varie località giapponesi, per giungere infine ad altri punti della Terra spargendo in tutto il mondo i semi del cachi superstite attraverso la collaborazione di moltissime persone. Nel 1996 l’artista giapponese Tatsuo Miyajima ideò un progetto per sostenere questa attività come forma d’arte. Venne così formato un gruppo senza fini di lucro, il Comitato Esecutivo del Progetto dell’Albero di cachi “Rinascita del tempo”, allo scopo di incoraggiare i bambini in tutto il mondo ad “incontrare ed allevare i figli dell’albero di cachi bombardato”.
Nel 1999 il progetto venne presentato alla 48° Biennale di Venezia, dove le scuole potevano concorrere all’adozione delle piantine che sarebbero cresciute con i bambini come simbolo di pace; come di fatto è avvenuto anche in diverse città italiane.
I cachi in cucina
I cachi sono ottimi da gustare così come sono: si tagliano a metà e si mangia la polpa con un cucchiaino. É ottimo per concludere il pranzo, fare merenda o colazione abbinandolo ad uno yogurt greco. Sono interessanti anche diverse ricette salate come: risotto ai cachi, torta salata ai cachi e al Camembert, antipasto di cachi e prosciutto crudo, insalata di melograno e cachi (o cachi persimon), ravioli di ricotta, cachi e pecorino.
Altre varianti dolci: torta al cioccolato con cachi, crostata di cachi, marmellata di cachi, crema (o mousse) di cachi, tiramisù ai cachi.
Per sapere come sarà l’inverno: analizzare i semi dei cachi
Secondo un detto contadino, è possibile stimare come sarà l’inverno che verrà utilizzando i semi del cachi. Infatti, una volta aperti, questi semi contengono il germoglio che, a seconda delle condizioni atmosferiche degli ultimi mesi, può presentarsi in tre differenti forme le quali rappresenterebbero un cucchiaio, una forchetta ed un coltello. Quali interpretazioni sono state date a queste immagini? Se il germoglio è a forma di cucchiaio, ci sarà un inverno nevoso in cui cadranno “palate” (leggi “cucchiaiate”, per l’appunto) di pioggia mista a neve; se a forma di forchetta la neve che cadrà sarà leggera; se a forma di coltello l’inverno sarà gelido e ventoso, tagliente.
Provare per credere!
Il Cimitero Monumentale
Non si può concludere questo scritto senza rammentare l’imponenza del nostro Cimitero Monumentale che si erge in adiacenza al terreno dei cachi e ribadire che occorre continuare a lavorare per valorizzarlo sotto tutti gli aspetti: architettonico, culturale, storico e sociale.
A tale proposito riprenderò quanto contenuto nel volume “Forlì. Guida alla città”, a cura di Marco Viroli e di chi scrive, edito nel 2012 da Diogene Books: “A seguito dell’emanazione dell’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804 che stabiliva che i cimiteri dovessero essere predisposti al di fuori dei centri abitati, dal 1807 anche Forlì mise in atto la costruzione di un grande camposanto fuori porta San Pietro.
Il Cimitero Monumentale fu progettato nel 1866 dall’architetto romano Pietro Camporese (1805 – 1873), il quale volle evidenziare l’intento monumentale a scapito di quello sociale. Gustavo Guerrini (XX secolo) apportò successivamente alcune modifiche al progetto originario. Il cantiere si avvalse degli sforzi e delle fatiche di molti Forlivesi. I lavori terminarono nel 1891 con la costruzione dell’abitazione del custode, di fatto però l’ultimazione vera e propria tardò ancora alcuni anni, coinvolgendo numerosi artisti, artigiani, decoratori, marmisti, stuccatori.
L’utilizzo del laterizio fu costante e imponente tanto che un’importante fornace con relativa cava era in funzione a poca distanza e diverse altre sorgevano tutt’intorno a Forlì. Ancora oggi è possibile leggere nelle colorazioni dei mattoni le diverse provenienze e le varie epoche di costruzione.
Per via della sua austera maestosità il ‘Monumentale’ è una delle principali architetture cimiteriali della Romagna. La struttura si ispira a modelli classici: al centro un tempio funerario destinato a custodire le spoglie dei defunti illustri e due grandi arcate intorno a formare un porticato a quadrilatero sotto il quale si trova un’interessante e preziosa raccolta di busti e statue funerarie (un censimento completo è in corso da parte dello studioso Alvaro Lucchi ndr), come i monumenti del santarcangiolese Gaetano Lombardini (1801 – 1896), allievo di Antonio Canova (1757 – 1822). Durante gli anni ’30-’40 del secolo scorso fu lo scultore Bernardino Boifava a essere impegnato nella realizzazione di alcune importanti opere tra cui il monumento all’aviatore Luigi Ridolfi (1894 – 1919). Di assoluta rilevanza è la croce, alta 10 metri, che i Paulucci di Calboli commissionarono nel 1931 al celebre architetto futurista Virgilio Marchi (1895 – 1960), per sormontare la tomba di famiglia, posizionata accanto al Pantheon centrale. All’interno di quest’ultimo si trovano i busti di Piero Maroncelli (1795 – 1846), Aurelio Saffi (1819 – 1890), Antonio Fratti (1845 – 1897), Giuseppe Pedriali (1867 – 1932) e Angelo Masini (1844 – 1926) insieme alle steli di Fulcieri Paulucci di Calboli (1893 – 1919), opera dello scultore Carlo Fontana (1865 – 1956), e di Raniero Paulucci di Calboli (1861 – 1931). All’interno della cripta giacciono in sarcofagi anonimi: le ceneri di Piero Maroncelli, trasportate dal cimitero di Greenwood (New York) il 12 agosto 1866; le ossa di Antonio Fratti, provenienti dalla Grecia nel giugno 1902; la salma di Fulcieri Paulucci di Calboli; le spoglie di Angelo Masini.
Nel 1933 il Pantheon fu isolato dalle arcate laterali per consentire l’accesso all’ampliamento creato nella parte retrostante. Contestualmente furono chiuse le arcate della maestosa facciata principale con pregevoli cancellate a vetri che sostituirono l’antiestetica tamponatura preesistente”.
Gabriele Zelli
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