«Per avere buona cooperazione servono buoni cooperatori, gente di principi. Ma non chiamiamola etica o morale: non siamo una religione. L’importante è che i soci siano al centro»
Corrado Pirazzini, 57 anni, è cooperatore da una vita. In più è uno che ama parlare chiaro, senza giri di parole. Di fronte alle varie crisi che il movimento sta affrontando a livello nazionale, il presidente di Copura ha una precisa idea della situazione. «Pretendere che i problemi delle cooperative si risolvano limitando i mandati dei gruppi dirigenti mi pare velleitario. Il problema è di come fare in modo che i soci abbiano la capacità e la possibilità di verificare l’operato dei gruppi dirigenti. E quando non funzionano, in ogni senso, siano in grado di sostituirli. Non chiamiamola etica o morale, non siamo una religione».
Cosa serve per avere buona cooperazione?
Per avere buona cooperazione servono buoni cooperatori. Persone che abbiano dei principi. Dobbiamo interrogarci seriamente, perché i cooperatori bisogna formarli sin da giovani. Con tutti i difetti della contemporaneità, però, credo che la cooperazione sia ancora un’ottima risposta in una società così disorientata. Se fatta seriamente e a prescindere dal colore.
Da cosa bisogna ripartire?
Dalle piccole cose. Non credo ai geni: se non sai fare una cosa facile è difficile che tu ne sappia fare una complicata. Non sento mai qualcuno che si domanda: come mai in Italia c’è tanta corruzione all’interno della pubblica amministrazione? Perché c’è la mafia? Gli italiani sono tutti mafiosi e corrotti? Oppure dobbiamo ammettere che abbiamo di fronte le carenze di uno Stato che non c’è. La corruzione regna dove regnano inefficienza e burocrazia. È un problema di sistema Paese, ma mi pare che in pochi se lo pongano.
Copura è nata nel 1975, da nove donne armate di bicicletta e scala. Oggi cosa siete?
Sì, donne straordinarie, eccezionali. La presidente Lidia Milina e la vicepresidente Paola Coatti hanno 84 anni. Due persone che non hanno potuto studiare, ma che hanno dei principi e una moralità integerrimi. Ancora oggi Lidia mi telefona, mi sgrida, mi da dei consigli.
Io entrai a 28 anni, nel 1985, quando c’erano un centinaio di soci. Oggi Copura ha 1.100 occupati e le varie società del gruppo fatturano 70 milioni. L’azienda è cresciuta nel tempo, siamo stati bravi e fortunati allo stesso tempo. Sarebbe potuta anche crescere di più, ma non abbiamo voluto eccedere e il gruppo dirigente ha condiviso questa mia visione.
Perché questa scelta?
Non molto tempo fa sembrava che le dimensioni migliori per stare sul mercato fossero chiare: più grande eri e più era facile lavorare. Ma da alcuni anni a questa parte il quadro legislativo è cambiato e questa risposta non basta più da sola. Non è raro che la stessa Consip faccia lo “spezzatino” in più lotti tra imprese in Ati. Avremmo dovuto puntare più in grande? Con quello che sta succedendo in altre realtà posso dire che abbiamo avuto fortuna. Dimensioni maggiori significano anche maggiori costi fissi e minore flessibilità. Lavoriamo anche in altri territori, ma si tratta di singoli appalti, per quanto importanti.
Che mercato dovete affrontare?
Il mercato privato è poca cosa, ed è sempre a rischio solvibilità. Per un’impresa che sta nella totale legalità come noi è praticamente impossibile essere competitivi. Il mercato pubblico è una tragedia. Lei sa cos’è l’allegato P?
Vagamente. Ce lo spiega?
L’allegato P è il documento con cui vengono determinati i metodi di calcolo per l’offerta economicamente più vantaggiosa negli appalti. Da Tremonti in poi maschera un massimo ribasso che fa male soprattutto ai cittadini. C’è una gara al prezzo più basso e al servizio peggiore. Le scuole, con questa scusa, saranno sempre pulite peggio. Ma le imprese non possono fare altro che adeguarsi alle condizioni del mercato per vivere. Anche multinazionali serissime, che non facevano un euro di sconto, ora partecipano alle gare con ribassi assurdi.
Quanto è grave il problema della reputazione del movimento cooperativo?
Il problema della reputazione, al di fuori dei nostri territori, non è di oggi. E non è sempre colpa nostra. Tutte le volte che abbiamo vinto un appalto fuori regione i lavoratori erano già stati scottati da precedenti esperienze con cooperative che in realtà erano altro.
In questo giornale parliamo spesso di “false” cooperative. Ma che cos’è una “vera” cooperativa secondo lei?
Secondo me la cooperativa mantiene naturalmente le sue caratteristiche peculiari finché è una piccola o media impresa. Poi c’è bisogno di studiare e mettere in pratica tutta una serie di correttivi. Altrimenti il rischio è che i gruppi dirigenti diventino autoreferenziali. È un problema di forma e sostanza, e nella sostanza bisogna sempre porsi il problema. Io poi difendo con forza la specificità delle cooperative di lavoro, dove il socio guadagna il suo stipendio dentro la cooperativa.
Quale dovrebbe essere il ruolo di Legacoop?
Noi non siamo letti come un’associazione di categoria, ma come una specie di holding. Non è assolutamente vero. Anzi, i contrasti tra le associate non sono rari e Legacoop spesso si trova a fare da arbitro. Questo non accade certo dentro alle holding. La nostra storia è quella di sempre, ma il mondo è cambiato. Il ruolo di Legacoop è quello di un’associazione di rappresentanza moderna. Spero solo non sia troppo tardi. Non mi pare che altre associazioni imprenditoriali siano lette allo stesso modo. Forse perché hanno più capacità di fare sintesi tra le diverrse anime.
L’obiettivo è l’Alleanza delle Cooperative?
Sicuramente. Speriamo solo che queste vicende non fungano da pretesto per chi vuole rallentare il processo.
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