Ieri, lunedì 8 aprile, è stata inaugurata nella sede della Regione Emilia-Romagna la mostra ‘opeRAEE’, un’esposizione di oggetti fatti ad arte. Pochi pezzi ma di estremo valore: sono opere fabbricate dagli uomini detenuti nelle carceri di Bologna e Forlì e impegnati all’interno del progetto RAEE (Rifiuti Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche).
La missione dell’iniziativa è quella di promuovere il lavoro e l’inclusione riabilitativa delle persone in carcere, valorizzando i loro interessi e capacità.
Si tratta di vere e proprie opere d’arte, non solo oggetti utili, come per modestia li ha invece definiti Paolo Massenzi, Presidente dell’Associazione Recuperiamoci!. Si potrebbe infatti sostenere che ci vuole forse più immaginazione e fantasia nel recuperare un oggetto avente già una sua forma, impiego e luogo specifico, piuttosto che crearne uno ex novo.
Anche questa è una questione di libertà; reinventare e reinventarsi.
Se l’uomo è nato libero, ma è dappertutto in catene (J.J. Rousseau), ci sono luoghi dove l’uomo lo è più tragicamente, luoghi in cui non solo la filosofia non serve a placare animi inquieti, ma anche la stessa dignità umana crolla con l’assenza di un lavoro.
Come parte della società, il carcere cerca invece di portare occupazione al suo interno, anzi la chiede con fermezza; gli uomini detenuti nelle strutture penitenziarie devono lavorare, è così che possono sfuggire a insoddisfazioni, sofferenze e depressioni. Desi Bruno, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, denuncia una situazione preoccupante per cui il lavoro è garantito solo a un misero numero di uomini in carcere; per lo più si tratta di occupazioni attinenti alla pulizia delle strutture, quindi non qualificanti, e per giunta a rotazione. In alcuni casi, il lavoro è assicurato solo per un mese all’anno.
A coordinare il progetto europeo RAEE sono stati le cooperative Gulliver (Forlì), Il Germoglio (Ferrara) e It2, impresa di transizione al lavoro nata a Bologna; Manuela Raganini, Presidente di Gulliver, è intervenuta alla manifestazione ricordando che è stata l’ONU a dare l’allarme per quanto riguarda l’ammasso di RAEE. E’ quindi doveroso ridurne la quantità per poter pensare a un futuro sostenibile (questo anche il discorso dell’Assessora Regionale Ambiente e Riqualificazione Urbana, Sabrina Freda).
Il recupero del rifiuto deve affiancare la ri-qualifica personale dell’individuo a cui si cerca di dare una seconda possibilità; in gioco c’è di nuovo la dignità umana che deve essere restituita attraverso un percorso educativo e formativo.
Questo progetto, attivo dal 2005, ha visto consolidarsi un vero e proprio sodalizio artistico tra alcuni detenuti e professionisti; questi ultimi hanno coordinato idee e procedure tecniche in modo da conferire un tocco estetico ai già attenti occhi di coloro che invece si sono (egregiamente) improvvisati artisti per l’occasione.
‘Pesce all’amo’, per esempio, è un’opera nata da un’idea di Matteo Lucca, scultore forlivese, e poi realizzata da tre uomini carcerati. Allegoria psicologica di chi si sente privato della sua libertà, il pesce è un mix di media; ingranaggi di stampanti, ferri e metalli misti, schede madri di pc si aggrovigliano tra loro per formare il corpo dell’animale e simboleggiare non solo la negatività di pensieri in confusione, disarmonici e ruvidi al tatto, ma anche la positività di un ‘fior nato dal letame’.
C’è poi una giostra che altro non è se non bellissima; ciò che resta di giocattoli e giochi elettronici ruota su un piatto di un microonde, il tutto ornato da una tastiera di un pc smontata e ri-assemblata. A realizzare ‘Un ricordo gira in giostra’ sono stati tre uomini detenuti sotto il coordinamento di Enrico Semproli. Critici d’arte la definirebbero come un’opera postmoderna, che trova la sua essenza in un pastiche di materiali, forme e referenti introspettivi; l’arte è strategica per esorcizzare la solitudine di un presente che dei tempi spensierati dell’infanzia ha solo un ricordo sbiadito.
Si tratta anche di opere pop, che attingono alla cultura popolare con ironia e scherzo; per ‘Calcio Balilla’, diverse cover di cellulari fungono da giocatori, una vecchia moquette è il campo da gioco e gli spalti bidimensionali dietro le porte sono foto in cartoncino di tifosi che gremiscono altri stadi.
Per Manuela Raganini, il detenuto che lavora non è più un detenuto ma un lavoratore; attraverso un impegno costante, l’uomo può ricostituire la sua identità sia personale, come singolo alla ricerca della propria soddisfazione e felicità, sia sociale, come elemento attivo in un gruppo di lavoro. Per giunta con alti e nobili obiettivi, quali quelli di trasformare rifiuti, anche dannosi e pericolosi per il futuro della società, in oggetti non solo utili, ma visivamente coinvolgenti e stimolatori di riflessioni.
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