Appuntamento speciale di Eureka con Massimo Romano. L'ipertrofia della tecnica nel mondo contemporaneo: quali le prospettive? Il modello cooperativo può essere una risposta?
La redazione di Eureka pubblica il contributo di Massimo Romano, membro della redazione, sul tema della tecnica: i robot ruberanno il vostro posto di lavoro? E quale potrebbe essere il ruolo del modello cooperativo?
Da anni ormai girano soprattutto in rete articoli con un comune denominatore: la tecnica vincerà il lavoro, la robotizzazione della forza lavoro sarà pressoché totale. Questo è un tema che però non trova spazio nell’agenda politica, che declina il tema più semplicistico della disoccupazione. Qui il tema è un altro ed è sistemico: l’estinzione del lavoro. Ma questo tema ne porta con sé un altro: esistono ancora dei margini per immaginare una tecnica socializzata, ancella dell’uomo e non tiranno?
Il tema è antico; probabilmente è persistente alla storia dell’uomo ad ogni stadio di avanzamento tecnologico. Apocalittici e tecnoentusiasti si affannano in giochi dialettici ad ogni step del progresso umano, in un divenire che non si è ancora esaurito. Si considera pacifico che la riflessione di svolta sul ruolo della tecnica nelle società umane trovi il suo dispiegamento nell’Europa dei grandi traumi collettivi motori della società di massa. In realtà, un primo punto di questo lungo percorso si affaccia prima, nel pieno della rivoluzione industriale e nel pensiero di uno dei grandi riferimenti del pensiero politico contemporaneo. Nell’opera di Marx, infatti, il tema della tecnica è pervasivo e onnipresente, e la sua declinazione politica che sembra più rilevante appare la seguente: non bisogna liberare l’uomo dalla tecnica, bensì nella tecnica. Per quanto l’architrave del pensiero del Marx maturo si concentri sulla relazione di dominio, ovvero sui rapporti di produzione, la mutazione dialettica dei rapporti di produzione implica un mutato ruolo della tecnica: il ritorno della tecnica ad una dimensione umana, proprietaria, socializzata.
Francoforte, pur figlia – illegittima – di Marx, adotta un differente approccio. Il tradimento delle premesse emancipatorie dell’Illuminismo era, per i francofortesi, tutto nel dispiegamento di una sapere tecnico che, weberianamente, assurgeva la razionalità rispetto allo scopo a dominus della storia e della relazione umana. L’Illuminismo ci aveva promesso che, mediante la ragione, l’uomo come lungo prodotto del Rinascimento avrebbe vinto il mondo e nel mondo. In realtà, la distorsione nella storia dell’idea di ragione come efficienza rispetto ai fini ha prodotto un sapere tecnico che domina l’uomo, in una distopia nella quale l’uomo è dominato dagli strumenti che egli stesso ha creato: è la tragedia della cultura, formalizzata da Simmel; è l’uomo come strumento di fatica anziché come strumento di piacere di Markuse. Ma se l’uomo è, in ultima istanza, dominato da ciò che egli stesso ha inventato per dominare, esistono ancora premesse emancipatorie? Secondo Francoforte dovremmo immaginare un’altra tecnica, dato che quella sviluppatasi in seno all’Illuminismo altro non è che strumento di dominio; una tecnica in grado di emancipare l’uomo e di riportarlo nell’alveo della genuinità della Ragione formulata da un Illuminismo che ha tradito le sue proprie premesse. Per molti questa elaborazione è l’ultima appendice di una cultura della crisi che ha attraversato la cultura europea dei grandi traumi collettivi, una negazione della modernità politica ed economica con un precipuo ruolo critico, di disvelamento dell’esistente più che di elaborazione di una proposta politica. Probabilmente è così. È possibile rinegoziare secoli, se non millenni, di sapere tecnico per riportarlo ad istanze emancipatorie? E poi, in fondo, senza questo sapere tecnico, che pure è dominio, le condizioni di vita dell’uomo, soprattutto nei paesi di capitalismo avanzato, sarebbero migliorate a tal punto? Il limite della teoria critica è tutto qui: disvelare l’esistente. Passaggio fondamentale, e tuttavia non sufficiente.
Fino a questo punto della nostra riflessione, sembra quasi che la colpa sia precipuamente degli intellettuali europei. Ovviamente non è così, o almeno non interamente: se da un lato, va detto, assistiamo alla morte del ruolo dell’intellettuale in Europa, il tema è stato, è e sarà squisitamente politico. Per un tempo ormai troppo lungo si è lasciato che il sapere tecnico guidato da istanza economica si dispiegasse in modo disorganico senza che fosse inserito in un’idea di società e un’idea di uomo: il progresso per il progresso, l’impresa per l’impresa. La tecnica ha consentito di debellare epidemie, ma anche di ridurre il numero di posti di lavoro necessari all’adempimento di un obiettivo di impresa; ha consentito di viaggiare a prezzi irrisori e di poter comprare un qualunque articolo da mobile, ma ha anche consentito che si affermassero nuove frontiere di sfruttamento del lavoro soprattutto nel campo della cultura e della conoscenza; ha promosso il consumo, ma ha deperito l’uomo. Tutto questo è avvenuto senza meccanismo regolativi, affidandosi alla mano, più o meno invisibile, del mercato. Un mercato che giustifica se stesso col tema delle “nuove competenze”. Ma un mercato che non sia a misura d’uomo è un mercato che funziona? Un mercato in cui l’efficienza ed il profitto sono le uniche stelle polari, è un mercato capace di includere gli esclusi? E questi esclusi, dove pensiamo che debbano andare?
Qualcuno ha cominciato a parlarne, ed è fondamentale che lo si faccia: il governo politico del progresso tecnico è essenziale nelle società avanzate. Se la tecnica consente di robotizzare il lavoro, e questo ha ricadute in termini di redistribuzione della ricchezza, ben venga: è proprio quel processo di socializzazione della tecnica di cui ci sarebbe bisogno. Se la tecnica si traduce nel dominio sull’uomo e nell’esclusione dell’uomo in quanto cittadino lavoratore, forse questo produrrà l’estasi degli attori economici, ma avremo società in rivolta. Più passa il tempo, più il tema del governo politico della tecnica diventa centrale. Perché senza di esso, muore l’uomo. E se muore l’uomo, cosa resta?
Il futuro è tutto da scrivere, e le premesse non sembrano buone. Il tema cruciale di un governo politico di una tecnica socializzata che significhi redistribuzione della ricchezza e non perdita di posti di lavoro è confinato agli intellettuali, alle accademie, a qualche opinionista illuminato, ma è fuori dall’agenda politica. Questo non deve scoraggiare: deve semmai spingere in modo sempre più radicale verso la moltiplicazione degli spazi di discussione, confronto, proposta. È importante rivendicare con forza come si debba guardare ad un mondo in cui la società non sia una società di capitali, ma di persone. In cui l’attività economica non sia soltanto la plasticità profittevole dell’attore ma la crescita di tutta la società. In quest’ottica, il modello cooperativo come strumento costituzionale di un’economia con al centro la persona e la società di persone forse andrebbe rilanciato con forza sempre maggiore: che possa essere questa una delle risposte anche e soprattutto sul piano culturale?
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