Il primo poeta a parlare di Romagna fu Dante Alighieri, il quale, esule dalla sua Firenze per i ben noti motivi politici, vi compose buona parte del suo capolavoro immortale, la Comedìa, divenuta poi “Divina” grazie all’intervento dell’illustre commentatore Giovanni Boccaccio.
Com’è noto il Sommo Poeta visse i primi anni del suo esilio a Forlì e gli ultimi a Ravenna, città che ne conserva tuttora le spoglie a dispetto dei fiorentini che da tempo ne chiedono una ingiustificata restituzione. Nel poema dantesco i romagnoli compaiono in gran numero, secondi solamente ai toscani. Eppure, nonostante questa copiosa presenza, nessuno dei nostri antenati trova posto in Paradiso: tanti all’Inferno, alcuni in Purgatorio, nessuno, a parte qualche santo tra cui San Pier Damiani (Canto XXI, Paradiso), a bearsi della luce eterna!
Significativo a tal proposito è ciò che accade nel Canto XIV del Purgatorio, in cui Dante incontra Guido del Duca, nobile ravennate della famiglia degli Onesti, Signori di Bertinoro, imparentato coi Traversari e i Mainardi, di parte ghibellina. Del Duca, che fu per lunghi anni giudice in varie città della Romagna (Imola, Faenza, Rimini, Ravenna e nella stessa Bertinoro), elenca una lunga lista di virtuosi conterranei scomparsi, chiedendosi che fine abbia fatto il loro alto esempio morale, lamentando al contempo l’imbastardimento dei costumi romagnoli. Vero è che uno dei motivi ricorrenti di tutta la Commedia è la rievocazione, piena di rimpianto, del buon tempo passato, della società feudale e cavalleresca, messa a confronto con la nascente società comunale e mercantile in cui prevalgono spregiudicatezza e rivalità; un contesto che era ancora in divenire e che avrebbe posto le basi della nostra attuale società, fatta di concorrenza e divisioni.
Basta questo a Dante per non dimostrare riconoscenza verso chi lo sta ospitando? Altro motivo della mancanza di romagnoli nell’alto dei cieli potrebbe essere che coloro che gli stavano offrendo asilo erano in vita e per questo non potevano ancora far parte del mondo ultraterreno. Oppure Dante si sentiva costretto a vivere in una terra sì ospitale ma dalla quale voleva prendere le distanze?
Pare che il fiorentino ben conoscesse e frequentasse la nostra terra anche prima delle condanne a morte inflittegli dai propri concittadini. Nel volume “Dante Alighieri primo turista in Romagna”, (Pliniana, 2013) Angelo Chiaretti, presidente del Centro Studi Danteschi San Gregorio in Conca, sostiene che il gruppo di giovani fiorentini gaudenti di cui faceva parte il futuro Sommo Poeta era solito oltrepassare gli Appennini per recarsi in Romagna a mangiare, gozzovigliare e poetare. Ed è proprio lo stesso Dante, nelle lettere all’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, a definirsi “fiorentino di nascita, non di costumi” e a chiamare “scelleratissimi” i suoi conterranei, invocando il loro massacro e la distruzione totale della città natia.
Tutto ciò potrebbe indurci a pensare che Dante apprezzasse maggiormente i costumi e gli scenari romagnoli di quelli della sua Toscana. Come si diceva, i romagnoli nella Commedia sono relegati quasi tutti all’Inferno. Tuttavia il Poeta colloca il Paradiso terrestre “in sul lito di Chiassi”, il lido di Classe di Ravenna, la pineta in cui amava camminare ai tempi della residenza ravennate. A tal proposito, Giovanni Pascoli sosteneva, per la verità non del tutto ragione, che la stesura della Divina Commedia fosse avvenuta quasi totalmente in Romagna. Il grande poeta romagnolo sottolineava che: «La foresta dell’Eden somiglia, esso (Dante, nda) dice, alla pineta di Classe. Ebbene la selva con cui comincia il poema, è quella stessa foresta. L’una e l’altra sono antiche come il mondo; sono la vita». Anche in questo caso il poeta di San Mauro prendeva un granchio, in quanto è opinione comune che la «selva oscura» con cui si apre la Divina Commedia sia identificabile con la foresta «selvaggia e aspra e forte» tra la provincia di Firenze e quella di Forlì, attraversata da Dante per raggiungere la salvezza. Anche perché poi l’Alighieri nomina esplicitamente San Benedetto in Alpe e la cascata dell’Acquacheta (Inferno, Canto XVI, 94-102), luoghi reali che nella descrizione dantesca appaiono quasi fiabeschi, immaginifici.
Durante il Risorgimento Dante divenne simbolo di unità per gli italiani e la sua figura fu spesso utilizzata come evocativa immagine artistica in campo musicale (Gaetano Donizetti), artistico (Francesco Hayez, Vincenzo Vela) e in letteratura (Giacomo Leopardi e Silvio Pellico).
Successivamente anche il Fascismo mise le mani sul Sommo Poeta. In particolare, durante il Ventennio, l’artista Amos Nattini (Genova, 1892 – Parma, 1985) realizzò la più bella e rara edizione della Divina Commedia pubblicata in epoca moderna, impreziosita da una serie di litografie realizzate da acquerelli di altissimo livello. Una copia di questo volume, custodita presso la Biblioteca Comunale “Aurelio Saffi” di Forlì, nella scorsa primavera è diventata oggetto di una suggestiva presentazione, divisa in tre videoclip visionabili sui canali YouTube di: Cultura Turismo Forlì, Amici dei Musei San Domenico e Ass. Direzione21.
La realizzazione dell’opera costò a Nattini vent’anni di duro lavoro (dieci per l’Inferno, sei per il Purgatorio, tre per il Paradiso). Nel 1939, quando venne conclusa, ne vennero stampate mille copie numerate, in volumi di grandi dimensioni (82×67 cm.), realizzati interamente a mano. Una copia dell’Inferno venne donata a papa Pio IX, una al re Vittorio Emanuele III e una terza al romagnolo Benito Mussolini, il quale, a sua volta, lo stesso anno, alla firma del Patto d’Acciaio, ne donò un esemplare ad Adolf Hitler.
Per concludere, sempre durante il Ventennio, negli Anni Trenta del secolo scorso, gli architetti Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri, in collaborazione col pittore e scultore Mario Sironi, progettarono il Danteum, un edificio-monumento interamente dedicato alla Commedia. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale impedì la realizzazione del Mausoleo che doveva sorgere lungo la via dei Fori Imperiali. Fortunatamente il progetto non venne abbandonato e, alcuni decenni dopo, il Danteum fu creato in Romagna, più precisamente a Ravenna. La costruzione venne eretta all’ingresso del Palazzo delle Arti e dello Sport “Mauro de Andrè”. L’opera è composta da cento colonne di diversi materiali: le più esterne in pietra a vista, nove in ferro di colore rosso (l’Inferno), nove in marmo di Carrara (il Purgatorio) e nove di cristallo (il Paradiso).
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