Unico nel suo genere nel territorio del Comune di Forlì
Nella campagna intensamente coltivata delle frazioni di Branzolino, San Tomè, Villafranca, ai confini con il territorio del Comune di Ravenna, ci sono molte strade che possono essere meta di una salutare camminata, da soli o in compagnia, in quanto percorse da un modestissimo volume di traffico solo di carattere locale. Inoltre ci si inoltra in appezzamenti di terreno che si perdono a vista d’occhio, da sempre utilizzati per le tipiche produzioni romagnole.
Una camminata lungo le vie del Sale e Bovelacci
Due di queste arterie sono la via del Sale, da via Minarda a via Lughese, e la via Bovelacci, da percorrere andata e ritorno per un totale di sei chilometri. La prima è così denominata da sempre perché quasi sicuramente ricorda uno dei tragitti seguiti dagli antichi convogli che portavano il sale, prelevato nelle saline di Cervia, nei territori interni privi del preziosissimo complemento alimentare; la seconda molto probabilmente prende il nome da una famiglia che vi abitava.
Si può raggiungere in auto il punto di partenza che consiglio essere la via del Sale angolo via Minarda, nella frazione ravennate di San Pietro in Trento, con la possibilità di parcheggiare su quest’ultima strada nei pressi di un cippo che ricorda quattro martiri della Resistenza forlivese uccisi dai nazifascisti.
Noi per la libertà abbiamo saputo morire…
Sul piccolo monumento, basamento e colonna troncata, realizzato in cemento e granisello, sono affisse le foto dei quattro ed è riportata la seguente scritta: “DELL’AMORE FERDINANDO / CERVETTI SECONDO / GAMBERINI IVO / GOLFARELLI GIOVANNI / 29-8-1944 / NOI PER LA LIBERTÀ / ABBIAMO SAPUTO MORIRE / VOI PER LA LIBERTÀ /SAPPIATE VIVERE. /
LA POPOLAZIONE DI S.P. IN TRENTO PONE AD ONORE E RICORDO / LI 29-8-1947″.
Dopo aver ponderato il testo che, ad avviso di chi scrive, è uno dei più significativi fra quelli posti sui tanti luoghi che ricordano i tragici avvenimenti del Secondo conflitto mondiale e della Resistenza, è bene rammentare cosa avvenne in quel luogo tra la fine d’agosto e la prima metà di settembre del 1944, quando la via Minarda e le campagne attorno furono teatro anche di efferati eccidi decisi dai nazisti e dai loro fiancheggiatori fascisti.
I quattro vennero uccisi dai nazisti dopo che erano stati arrestati il 2 agosto 1944 dalla milizia fascista, torturati e in seguito condotti alla prigione, allestita nell’ex befotrofio di viale Salinatore di Forlì dalle SS, e messi a disposizione dei tedeschi. La notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944 un soldato tedesco rimase ferito per lo scoppio di un ordigno esplosivo in un’azione ascrivibile ad una delle formazioni partigiane in quel periodo operanti. Il giorno dopo il 29 agosto i quattro giovani operai forlivesi della fabbrica Orsi Mangelli furono portati sul luogo dell’accaduto e lì impiccati ai bordi della strada per rappresaglia. L’eccidio avvenne alla presenza di una quarantina di persone rastrellate nella zona, costrette a scavare le fosse per accogliere i corpi che rimasero esposti come monito per ventiquattro ore.Sul terribile periodo storico che va dall’8 settembre 1943 al 10 dicembre 1944 si consiglia di leggere il libro “I giorni che sconvolsero Forlì”, redatto da Marco Viroli e da chi scrive, edito dal Ponte Vecchio di Cesena nel 2014.
Il Cammino di Dante
Percorsa la via del Sale, lunga poco più di due chilometri, si sbuca sulla via Lughese che è da percorrere per poche decine di metri in direzione Forlì, stando attenti perché in questo caso il traffico è notevole e scorre a velocità molto elevata (in barba ai limiti dei cinquanta chilometri orari), per imboccare la via Bovelacci lunga circa un chilometro. La strada termina a ridosso del Canale Emiliano Romagnolo (C.E.R.), nel punto in cui bypassa il fiume Montone. Sulla riva del corso d’acqua corre una pista ciclo-pedonale, in alcuni tratti anche carrabile al servizio di diverse abitazioni, che dal ponte di Schiavonia conduce a Ravenna. Non a caso l’Associazione “Il Cammino di Dante” l’ha scelta come itinerario delle prime due tappe del percorso che collega la città bizantina con Firenze. Si parte dalla Tomba di Dante e dopo aver visitato la Basilica di San Francesco, il rinnovato centro didattico dantesco dei frati minori e i numerosi luoghi danteschi della città, si lascia il centro storico procedendo lungo l’argine dei Fiumi Uniti, si continua lungo l’argine del Montone. In seguito si raggiungeranno nell’ordine: la chiusa e la frazione di San Marco, la sede dell’Associazione (San Marco, via Argine sinistro Montone 135, per ritirare le credenziali), San Pancrazio, Chiesuola e infine Pontevico, dopo aver macinato circa 18 chilometri.
Per ritemprarsi dalla fatica si può approfittare della presenza della storica “Trattoria da Luciano”, sita nello stesso posto dove fin da oltre 200 anni sorgeva una modesta osteria conosciuta e frequentata dai birocciai e dai viandanti che qui sostavano per rifocillarsi. Ora, da cinquant’anni, è attivo l’attuale ristorante che propone pietanze tipiche romagnole.
Da Pontevico parte la seconda tappa pianeggiante e senza difficoltà che porterà il camminatore a Oriolo dei Fichi (circa 20 chilometri). Percorrendo sempre l’argine del fiume si proseguirà verso le colline passando sotto l’autostrada e la ferrovia prima di arrivare all’incrocio con la via Emilia. Dopo aver attraversato la via Emilia occorre continuare lungo l’argine del torrente Cosina per poi imboccare via Ossi. Qui si girerà a sinistra e dopo 250 metri a destra per via Castel Leone e per via del Passo; successivamente si dovrà svoltare per via Oriolo fino ad arrivare alla storica Torre che nell’attuale costruzione risale al 1476, anno di ristrutturazione del fortilizio ad opera dei Manfredi, signori di Faenza.
I salici da vimini
Ma ritorniamo alla via Bovelacci, perché quando ormai la si è percorsa tutta, ci si imbatte in uno straordinario filare di salici da vimini formato da 10 piante (vedi foto Giulio Sagradini), in adiacenza ad un frutteto di kiwi. Personalmente sul territorio comunale di Forlì non ho visto altre piante di vimini così, sia per il numero, sia per l’altezza e le dimensioni dei fusti, sia anche per la cura con cui vengono tenute. Sono dei veri e propri alberi che producono tantissimi rami flessibili che storicamente sono da sempre elementi preziosissimi per la conduzione delle attività agricole.
Da segnalare che in un altra tratto di via del Sale, nel limitrofo territorio di Ravenna, sono presenti ben 18 alberi della stessa specie, che si caratterizzano, rispetto a quelli di via Bovelacci, per essere a capo di altrettanti filari di viti e per avere il tronco più basso, mentre per quanto riguarda la vetustà probabilmente sono stati piantati più o meno nello stesso periodo. Anche in questo caso si tratta di un unicum.
La potatura dei filari di vite
Ho un ricordo molto nitido di quando, nel mese di febbraio, giungeva il momento della potatura dei filari di viti delle vigne e dei singoli filari che dividevano i vari appezzamenti di terreno del podere che la mia famiglia coltivava a mezzadria, in via Viola del Monte a Santa Croce di Bertinoro. Anche per questa attività, nei giorni precedenti l’avvio, c’era, da parte degli uomini di casa, un lavoro di preparazione per non lasciare niente al caso. Questo permetteva che, una volta avviata, la potatura potesse procedere spedita e senza intoppi in modo da poter impiegare il minor tempo possibile, nonostante durasse diversi giorni. Si affilavano le cesoie con la mola (“rude al muiĕt da pudé” da non confondere con le forbici – “al giûr o toujours” – usate in sartoria che, seppure simili, hanno le lame più lunghe e l’impugnatura più corta). Già da qualche tempo erano pronti i rametti di vimini di salici per fissare i tralci ai fili, così come le viti, se necessario, venivano fissate ai pali o agli alberi, spesso ciliegi o altre piante da frutto, che si trovavano a distanza regolare all’interno del filare; operazioni che venivano eseguite da mani ruvide che lavoravano veloci, con maestria e speditezza, fissando tutto abilmente. Oggi per lo più si usano fascette o legacci di plastica, ma un tempo ovviamente non era così. Tutti i legacci (e molto altro ancora) erano ottenuti da un albero straordinario, il salice da vimini (Salix viminalis), chiamato localmente “vênc”. Quest’albero ha avuto un’enorme importanza nell’economia contadina.
“I vênc” venivano coltivati lungo i fossi, in qualche raro caso, all’inizio di ogni filare di vite. Ai primi di febbraio venivano potati a loro volta e dai rami si ricavavano legacci di due misure: quelli più grossi e robusti servivano a legare le viti ai pali, quelli che erano ricavati da rami laterali lunghi e sottili venivano usati per fissare i tralci ai fili. Tutti i rami erano lasciati in acqua per alcune settimane, in modo da facilitare la piegatura.
La legatura delle viti col salice era una pratica duratura: un legaccio poteva durare anche due anni, vista la grande resistenza alle intemperie e si effettuava avvolgendo una o due volte le parti da unire con il legaccio, quindi se ne intrecciavano le estremità e si ripiegava all’indietro la più lunga delle due, bloccandola contro la vite o il sostegno stessi.
Esistevano ovviamente diverse tipologie di nodi, con sottili variazioni di zona in zona. In alcuni casi ad esempio l’estremità veniva fatta passare dentro al primo giro del legaccio, realizzando una sorta di legatura.
Oggi nei grandi vigneti, di decine di ettari, è improponibile pensare di utilizzare ancora questo procedimento. Ma all’interno di un vigneto familiare la legatura delle viti col salice può rivelarsi una pratica ancora sostenibile e anzi in grado di riavvicinarci alle tradizioni di un tempo ormai remoto, anche se distante solo pochi decenni. Si manterebbero, anzi aumentebbero, anche gli alberi da cui li ricaviamo, che sono un lascito delle generazioni che ci hanno preceduto.
I cesti di vimini
“Gavagn” è il nome di un cesto diffuso in Romagna, usato in campagna per raccogliere la frutta e non solo; ha fondo curvo, realizzato con tecnica ad archetti, di forma semisferica o semiovale con manico. Questa forma ha origini molto antiche, ed è diffusa in tutto il mondo. Il termine “gavagn” deriva dal latino “cavaneum” (contenitore, oggetto cavo), e in tutta Italia molti cesti diversi tra loro hanno in comune questa stessa etimologia: ad esempio, in Liguria il cavagno è un cesto di forma squadrata, in fasce di castagno, usato per la raccolta delle olive, in Emilia la cavagna è una grande cesta a fondo piatto, di salice, usata durante la vendemmia, e la gavagnòla marchigiana è un cestino ad archetti da portare in cintura, fatto di ulivo, salice e vitalba.
I “gavagn” romagnoli sono rotondi od ovali, forme e dimensioni variano in base alla specifica funzione; vengono realizzati soprattutto in salice e vitalba, anche se per la struttura si può
impiegare una maggiore varietà di piante (sanguinello, nocciolo, frassino, tamerice, ulivo, corniolo ecc.). In altre zone d’Italia e d’Europa cesti di questo tipo sono realizzati completamente in nocciolo, con tessitura di fascette ricavate da rami di due o tre anni.
La raccolta dell’uva
Al momento della raccolta dell’uva, che qualche decennio fa avveniva sempre in settembre, era il momento di preparare tutto quello che occorreva per questa faticosa (tutti i lavori in campagna sono faticosi) ma nel contempo piacevole incombenza, soprattutto se il raccolto si prospettava abbondante e di qualità. Ecco allora che nuovamente si affilavano le cesoie e si ripulivano le casse dove l’uva sarebbe stata gettata per poi essere trasportata a casa o alla Cantina sociale con il plaustro, il tipico carro da trasporto a due o quattro ruote, già in uso presso i romani. In questa circostanza entrava in gioco un altro strumento fondamentale per la raccolta come il cesto di vimini. Venivano recuperati tutti quelli che durante l’anno erano serviti per altre incombenze, come andare a raccogliere i prodotti dell’orto, la frutta, ecc. e venivano utilizzati quelli nuovi, intrecciati durante i mesi del periodo invernale, magari durante le lunghe giornate in cui non si potevano svolgere altri lavori perché i campi erano ricoperti da un soffice manto di neve.
Zèst da vinmê (Cesto da vendemmia)
L’importanza e l’utilità dei cesti sono codificate anche da un indovinello in dialetto romagnolo che dice: “L’è un garzôn da cuntadén / cun e’ nês fat a rimpén, / cun un vsti tót ad fïssur / e zintnera ad cusidur. / I’ j da tót da megnê’ / ch’e’ pê’ ch’ l’epa da s-ciupê’; / mo a la fén, int e’ pió bël, / i’ vö indrì tót ignacvël” (È un garzone di contadino / col naso fatto a gancio, / con un vestito che ha tutte fessure / e centinaia di cuciture. / Tutti gli danno da mangiare, / tanto da farlo crepare, / ma alla fine, sul più bello, / vogliono tutto indietro).
Il cesto e la cesta: usati fin dalla notte dei tempi
Da quando l’uomo ha avvertito la necessità di dotarsi di un recipiente per trasportare materiali in modo più agevole e in quantità maggiore rispetto al solo uso delle mani, i cesti, o le ceste al femminile, hanno avuto un ruolo determinante nell’economia delle attività quotidiane. Da sempre vengono realizzati intrecciando le foglie di palma, le canne, i giunchi, la corda, i ramoscelli e i vimini. I cesti variavano notevolmente per forma, dimensioni e fattura, e l’intreccio può essere rado o fitto. Alcuni erano muniti di manici e coperchio, altri no. Di sicuro i primi intrecci saranno stati molto semplici e rudimentali, col tempo sono stati perfezionati fino ad arrivare a forme molto complesse che possiamo trovare oggi in varie parti del mondo.
Mosè: salvato su un cesto di vimini
Mosè è considerato una figura fondamentale nell’Ebraismo, del Cristianesimo, dell’Islam, del Bahaismo, del Rastafarianesimo, del Mormonismo e di molte altre religioni. Per gli ebrei è il più grande profeta mai esistito, per i cristiani colui che ricevette la legge divina, per gli islamici uno dei maggiori predecessori di Maometto. La sua storia è narrata, oltre che nelle Sacre Scritture, anche nel Midrash, nel De Vita Mosis di Filone di Alessandria (25 a.C. – 45 d.C.) e nei testi di Tito Flavio Giuseppe (37 d.C. – 100 d.C.).
Mosè nacque nel periodo in cui gli Ebrei erano schiavi in Egitto. Quando il faraone ordinò di uccidere tutti i bambini maschi, Mosè venne messo in una cesta di vimini e abbandonato sulla riva del Nilo, dove la figlia del faraone lo raccolse e lo adottò come suo figlio. Per un certo periodo egli visse a corte come un principe; poi, diventato grande, si accorse che il suo popolo era oppresso e uccise un egiziano per difendere un ebreo. Per questo fu costretto a fuggire nella terra di Madian, dove si sposò con la figlia di un sacerdote del posto e dove gli apparse Dio che gli rivelò il suo nome e gli ordinò di tornare in Egitto per liberare il suo popolo, aiutato da suo fratello Aronne.
Non vado oltre perché il resto è sufficientemente noto.
I cesti ritrovati a San Rossore di Pisa
A seconda dell’uso che se ne deve fare i cesti possono essere di ogni forma e dimensione e vengono realizzati con tecniche e materiali diversi se usati come contenitore, come gabbia o imballaggio. Un tempo i contadini sapevano costruire tutto quello che serviva per la loro attività in campagna e nella vita di tutti i giorni, tanto che nei musei etnografici e della civiltà contadina, sparsi un po’ in tutt’Italia, si trovano intrecci di tutti i tipi ed in qualche caso davvero curiosi come graticci, ceste per le chiocce, portafiaschi, girelli e culle per neonati ed altri cesti dalle forme più strane, ma che avevano tutti una loro funzione specifica.
Di quest’arte, che si è tramandata verbalmente, se ne ha un esempio nei cesti rinvenuti nel sito archeologico delle Navi di Pisa a San Rossore, probabilmente i più antichi che si conoscano.
Quando nel 1998 le Ferrovie dello Stato iniziarono i lavori per la realizzazione di un centro di controllo per la linea ferroviaria Roma-Genova a fianco della stazione di Pisa San Rossore, immediatamente emersero oggetti di legno di cui gli archeologi compresero l’eccezionale importanza. A sei metri di profondità fu individuata una incredibile serie di relitti navali in eccezionale stato di conservazione, con i loro carichi di prodotti commerciali e le testimonianze della vita a bordo. Da quella scoperta è nato il cantiere delle navi romane di Pisa, concluso nel 2016, che ha restituito circa trenta imbarcazioni di epoca romana e migliaia di frammenti ceramici, vetri, metalli, elementi in materiale organico. Si tratta di uno dei più interessanti e ricchi cantieri di scavo e ricerca degli ultimi anni. Il laborioso lavoro di archeologi e restauratori ha ricomposto il mosaico di una lunga storia, fatta di commerci e marinai, navigazioni e rotte, vita quotidiana a bordo e naufragi.
La particolare condizione di conservazione dei reperti racchiusi in strati di argilla e sabbia ha richiesto un considerevole sforzo economico, organizzativo e tecnologico, mettendo a disposizione della ricerca laboratori, depositi, strumentazioni all’avanguardia e logistica destinati al recupero degli oltre trenta relitti individuati e dei materiali ad essi associati.
Il cantiere delle Navi Antiche è quindi diventato un centro dotato di laboratori, depositi e strumentazione che ha visto la collaborazione di decine di istituzioni universitarie e di ricerca italiane e straniere.
Dopo lunghi anni di preparativi, l’esposizione de Le Navi Antiche di Pisa ha finalmente aperto nel 2019, rendendo visibili al pubblico gli incredibili reperti rinvenuti nell’area di San Rossore, fra questi dei cesti di vimini intrecciati dagli antichi romani.
La lavorazione del giunco e del vimini
Considerato quanto ritrovato negli scavi sopra citati, non deve destare quindi stupore se ancora oggi la lavorazione del giunco e del vimini é stato uno dei più antichi mestieri diffusi a Roma, tanto che uno dei sette colli, il Viminale, potrebbe aver preso il nome proprio dagli artigiani che intrecciavano il vimini, i viminatores, o comunque dalle piantagioni di vimini che costeggiavano l’altura.
Anche l’Enciclopedia Treccani conferma che l’arte d’intrecciare vimini è assai antica e diffusa. Presso i Greci e, presso i Romani, “si costruivano ceste, recipienti, sedili, ecc.; anche il clipeus era uno scudo fatto con un intreccio di vimini rivestito di cuoio. L’insieme degli oggetti fabbricati con tale materia prima era genericamente indicato con il nome di vimina (Plinio, Nat. Hist., XVII, 143). La lavorazione dei vimini continua nel Medioevo e nell’età moderna e la sua importanza è dimostrata dal costituirsi di corporazioni di quest’arte; nel Settecento, il panieraio italiano eccelle per finezza e buon gusto di prodotti. Attualmente vengono coltivate le speciali varietà di salice più adatte alla produzione di vimini, che in Italia e all’estero, alimentano, anche fuori dell’ambito artigiano, una vera industria, con mano d’opera specializzata.
Le principali specie del genere Salix che si coltivano per la produzione dei vimini sono: S. alba, triandra, purpurea, incana, viminalis, aurita e la loro caratteristica è di avere rami lunghi, diritti, flessibili”.
Queste piante vengono coltivate in terreni freschi, argillosi, argilloso-silicei oppure argilloso-calcarei, a ceppaia o a capitozza e i rami si raccolgono ogni anno o ogni due anni. La raccolta viene effettuata in due momenti dell’anno, fra marzo e maggio e da novembre a marzo usando un falcetto o un seghetto. I vimini poi si affastellano, si pongono a macerare nell’acqua preferibilmente corrente e successivamente si scortecciano o a mano, o a macchina, o a vapore, quindi si lasciano disseccare e si riuniscono nuovamente in fasci a seconda della loro lunghezza.
“Le cortecce rappresentano un sottoprodotto di non trascurabile importanza” si legge sulla Treccani; possono servire, infatti, oltre che alla legatura di fascine, covoni, ecc., come concime, avendo un notevole valore fertilizzante; come alimento per bestiame, che si avvicina assai al potere nutritivo del fieno; come conciante, per il tannino che contengono e, infine, per l’estrazione della salicina, ad uso medicinale” (…) “Per la lavorazione, si usano speciali utensili e attrezzi adatti a tagliare, battere, forare e fendere i vimini. Quest’ultima operazione, oltre che a mano, si fa con la macchina fenditrice a pedali azionanti cilindri scannellati, che portano il vimine contro le lame disposte ad alette. Anche la piallatura si esegue a mano, con un’apposita piccola pialla (“graffietto”) o con una macchina a pedale o azionata da motore, pure con rulli e lame, che riducono il vimine in lisce lamelle. La torsione, cui si assoggettano i vimini per le lavorazioni meno grezze, è invece sempre operata a mano, al momento dell’applicazione. Per lavori di lusso, richiedenti omogeneità di dimensioni, si usa il “dado di misura”, tubo di ferro lungo 7-8 cm., entro il quale si fanno scorrere i vimini. Quelli di grossa sezione vengono curvati con un arnese in forma di una grande bottiglia con il collo molto allungato chiamato l’arlecchino di ferro o di legno”
Dai vimini si possono ricavare: a) articoli da imballaggio e da viaggio, che vanno dalle molteplici forme di ceste e di panieri per frutta, ortaggi, fiori, latticini, uova, pesce, e dagl’imballaggi per vetrerie e terraglie fino alle valige e ai bauletti; b) oggetti di uso casalingo, per biancheria, stoviglie; c) oggetti rurali e per aziende agricole, come misure per cereali, le “profonde” per misurare alimenti da bestiame, le “criole” (gabbie circolari per allevamento di volatili), museruole, rivestimento di damigiane; d) oggetti per bambini, come culle, carrozzelle; e) lavori di fantasia: panierini da colazione, cestini per corrispondenza, da lavoro, portaombrelli, portavasi; f) mobili e sediame per giardini, spiagge, verande, atri. I vimini grossi si utilizzano anche in determinate opere fluviali. Per la fabbricazione di questi oggetti, i vimini vengono usati da soli o unitamente ad altro materiale, come canne, rafia, bambù, listelli di vari legni, paglia, trucioli, sorgo.
La lavorazione dei vimini occupa in Italia un posto non trascurabile fra le attività minori, mentre è famosa in Estremo Oriente e più che discreta anche in alcuni paesi europei: Francia, Austria, Olanda e Germania.
L’Ecomuseo delle Erbe Palustri di Villanova di Bagnacavallo
Quando si parla di intrecciatura di materiali vari il pensiero va immediatamente all’Ecomuseo delle erbe palustri di Villanova di Bagnacavallo che ha iniziato la sua attività di ricerca e recupero nel 1985, con la finalità primaria di salvare e documentare un bagaglio di capacità e valori legati alla vita vissuta fra terra e valle. Particolare attenzione va alle antiche tecniche di lavorazione delle erbe palustri, sviluppatesi dal XIV secolo fino agli anni settanta del secolo scorso.
L’opera di ricerca evidenzia l’esigenza di non disperdere una varietà di tecniche di lavorazione di valore estremo, patrimonio generazionale che, estinguendosi, porta con sé un’arte specifica, si potrebbe dire unica, di intrecciare e tramare le erbe di valle, con le sole mani o con l’ausilio di rudimentali attrezzi. Per questo vengono recuperati incastri, intrecci, tessiture, trame, torsioni, filature, realizzati con le vegetazioni spontanee delle zone umide, cioè erbe e legnami da utilizzo che crescevano nell’ambiente circostante a Villanova.
I vimini sostituiti dal “rattan” sintetico
Nel corso degli ultimi anni si è accentuata la tendenza da parte delle aziende che producono oggetti di arredo, soprattutto per esterni, come sdrai e sedie, di sostituire l’uso dei vimini con il “rattan” sintetico, conosciuto anche come “polyrattan”. Si tratta di un materiale progettato per sembrare simile ai vimini naturali, è realizzato generalmente in polietilene e si sta imponendo nei paesi occidentali dov’è diventato una vera e propria moda.
Il termine “rattan” è utilizzato per indicare il legno di diverse specie di palme ed è utilizzato per manufatti intrecciati a mano. Allo stesso modo, il “rattan” sintetico viene intrecciato a mano e richiede periodi di lavorazione piuttosto lunghi e notevoli risorse umane. Non a caso i maggiori produttori di manufatti in “rattan” sintetico sono ubicati in paesi asiatici come Cina, Vietnam, Indonesia, laddove lo sfruttamento della manodopera consente la produzione a costi più che concorrenziali con quelli dei paesi occidentali.
Il “rattan” sintetico è generalmente molto durevole, resistente ai raggi UV del sole e all’acqua; un ulteriore prodotto destinato ad incrementare il livello di inquinamento, cosa che sicuramente non avverrebbe se si usassero vimini o giunchi.
Il mercato dei vimini di Forlì
Da decenni la città di Forlì mette a disposizione un’area dove si svolge quello che da sempre è chiamato il “mercato dei vimini”. Fino agli anni duemila gli ambulanti di questo settore esponevano la loro mercanzia lungo la strada che correva parallela a viale Vittorio Veneto in concomitanza con i due mercati settimanali del lunedì e del venerdì. Con l’adeguamento dell’importante arteria stradale così com’è oggi, con le carreggiate e i filari di alberi che affiancano su ogni lato le due corsie di marcia, l’attività mercantile che vi si svolgeva è stata trasferita nell’area antistante lo stadio “Tullo Morgagni” in viale Roma.
Il vincastro
Dal salice da vimini si ricava anche un bastone che utilizzano i pastori per guidare il gregge, oltre che per allontanare dalle pecore animali come cani randagi o lupi. Come già detto la pianta è chiamata anche vinco, da cui vincastro che è sinonimo di bastone.
Solitamente il vincastro è lungo più o meno come la persona che lo possiede in modo che possa essere impugnato circa a due terzi della sua altezza per sostenere parte del peso durante il cammino e reca sulla sommità superiore una sorta di ricciolo ricurvo tipicamente utilizzato per portare alcuni piccoli sacchi per il viaggio. La parte ricurva serve al pastore, a differenza del bastone tradizionale, per usi particolari come catturare, fermare o guidare con più decisione pecore, capre e i loro nati, “agganciandoli” e trattenendoli, per il collo o le zampe.
Il vincastro è stato assunto dal cristianesimo come simbolo di guida spirituale del popolo di Dio nella metafora del pastore e del gregge. Tra le insegne del papa e dei vescovi, c’è appunto un bastone detto pastorale, che si rifà al vincastro ed è simbolo di strumento di guida ma anche di protezione
Nel Salmo 23 della Bibbia, o Salmo del buon pastore, il vincastro è così citato: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. (…) Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”.
Anche Dante nella Divina Commedia, canto XXIV dell’Inferno, cita il vincastro nell’ambito di una metafora a carattere bucolico. Dante descrive il cambiamento di umore del maestro Virgilio, paragonandolo a un pastorello che deve portare fuori il gregge in una fredda mattina di inverno: in un primo momento si dispera, ma poi si rinfranca ed esce comunque con le pecore: “(…) lo villanello a cui la roba manca, / si leva, e guarda, e vede la campagna / biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca, / ritorna in casa, e qua e là si lagna, / come ’l tapin che non sa che si faccia; / poi riede, e la speranza ringavagna, / veggendo ’l mondo aver cangiata faccia / in poco d’ora, e prende suo vincastro, / e fuor le pecorelle a pascer caccia. / Così mi fece sbigottir lo mastro / quand’io li vidi sì turbar la fronte, (…)”.
Il “Vincastro d’Argento” è invece l’attestato più alto che, con delibera presa all’unanimità dal Consiglio di Presidenza, l’Accademia degli Incamminati di Modigliana riserva ai soci “che hanno dato valore alla vita per l’esemplare condotta e i risultati raggiunti: negli studi, nella ricerca e nell’insegnamento; nell’attività creativa e artistica; nell’impegno politico e civile o di volontariato; nell’esercizio dell’attività professionale, imprenditoriale, commerciale e, comunque, produttiva”.
Per consuetudine la consegna del “Vincastro d’Argento – Premio a una Vita” avviene in apertura delle Tornate accademiche.
Il “caxixi”: uno strumento musicale fabbricato con i vimini
Un piccolo cesto di vimini intrecciato finemente, con la base costituita da zucca essiccata, che si sorregge con una mano infilando due dita nel semicerchio che si trova nell’estremità superiore viene anche ampiamente utilizzato come strumento musicale idiofono a percussione indiretta. Si chiama “caxixi”, inizialmente diffuso in Africa, dove veniva utilizzato, considerato il suono vivace, per richiamare la presenza degli spiriti buoni e per spaventare e mandare lontano quelli malvagi, trova tuttora ampio uso in Brasile dove accompagna il suono del “berimbau”, strumento musicale a corda, nella “capoeira”, un’arte marziale caratterizzata da elementi espressivi come la musica e l’armonia dei movimenti, tanto che spesso viene scambiata per una danza. Dentro al piccolo “cesto di vimini” vengono messi semi o conchiglie che col movimento generano il suono, che risulta essere diverso e distinto in base alla parte che viene colpita, i vimini o la base di zucca. Orientato il “caxixi” sul lato dei vimini, produce un suono simile a quello di uno shaker ma più caldo; colpendo invece con i semi il lato della zucca, si ottiene un suono più secco e più alto di volume. Grazie a queste caratteristiche il “caxixi” in Brasile ha trovato un vasto uso anche come accompagnamento per diversi stili musicali tradizionali e moderni.
L’incendio di effigie di uomini realizzate in vimini
In molti paesi europei resistono tradizioni che risalgono al paganesimo, così pure in Italia, che spesso vengono rievocate in occasione di ricorrenze religiose senza destare particolare riprovazione, come la Segavecchia a Forlimpopoli che affonda le sue radici nella storia, in un passato fatto in parte di miti e leggende. Una sagra contadina volta alla benedizione della terra per un prosperoso raccolto e alla esorcizzazione del male attraverso il rito della punizione (nel nostro caso la segatura della vecchia mentre da altre parti viene bruciata) quale via di redenzione e rinascita. Un rito che ha mantenuto nel tempo il suo simbolismo originario.
In alcuni località vengono usate sagome di uomini realizzate con i vimini per essere date alle fiamme durante alcune festività pagane contemporanee. Durante l’annuale ricorrenza danese di Sankt Hans (San Giovanni) in varie località vengono incendiate, solitamente verso la fine dell’evento, le effigi in vimini o in materiali che possono essere di dimensioni reali oppure enormi, delle vere e proprie “sculture” temporanee. Sono realizzati con una struttura in legno intrecciata con bastoncini flessibili come il salice; un lavoro estremamente complesso che richiede giorni e giorni di impegno.
L’incendio di gigantesche raffigurazioni umane è una tradizione tra alcuni villaggi del Portogallo del nord che si possono mettere in relazione con il passato celtico di questa nazione (l’effigie ha il suo nome, Entrudo che deriva dalla parola latina introits che significa introduzione). Il Festival Entrudo o il Festival di Caretos è organizzato da sempre come un rituale di fertilità che annuncia la buona stagione che si spera ricca di raccolti. In questo caso gli uomini giovani si vestono con costumi colorati e indossano maschere con le corna (di solito fatte di legno) e vanno in giro per il loro paese alla ricerca di ragazze per “fertilizzarle” simbolicamente. L’apice della festa vede
l’accensione del rogo di una gigantesca effigie umana con le corna mentre i giovani-adulti vi corrono intorno.
In Scozia si svolge il Wickerman Festival; evento annuale di musica rock e dance che ha come caratteristica principale l’incendio di una grande effigie di legno nel corso dell’ultima notte, così come succede nel deserto del Black Rock, Nevada, durante il Burning Man, un evento annuale di musica rock e dance che dura sette giorni.
Da sempre nel nostro paese, come già accennato, è una “vecchia signora” ad essere incendiata e questo ha una connotazione più cristiana dal momento che l’evento si tiene nel corso del giovedì di metà quaresima, come magistralmente rappresentato nel film “Amarcord” di Federico Fellini.
Gabriele Zelli
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