Prima tappa dell'itinerario dantesco nella valle dell'Acquacheta a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli
Volendo indicare un itinerario sulle tracce di Dante Alighieri in Romagna e in particolare nella valle del Montone, omettendo ogni riferimento storico sul periodo e sulla figura del Sommo Poeta che si dà per acquisito, non si può fare a meno di partire dalla cascata dell’Acquacheta, nel 1300 situata nelle terre dei conti Guidi di Dovadola.
Dante Alighieri, nel XVI Canto dell’Inferno (vv. 94 – 105), paragona il rumore dello scroscio dell’acqua della “caduta” nei periodi di piena alla rumorosa e assordante cascata del Flegetonte, fiume che separa il settimo dall’ottavo cerchio dell’inferno:
“Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ‘nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’acqua tinta,
sì che ‘n poc’ora avria l’orecchia offesa”.
Il fragore della cascata fu probabilmente uno dei suoni che colpirono maggiormente il poeta lungo la strada che oltrepassa l’Appennino fino a scendere a Forlì, un percorso che, tra la primavera del 1302 e quella dell’anno seguente, egli deve aver percorso alcune volte in entrambe le direzioni.
Verso la fine del 1302 o all’inizio del 1303, l’Università dei Guelfi bianchi, un’organizzazione di stampo politico-militare, lasciò Arezzo per trasferirsi a Forlì. Così fece anche Dante che, in quanto segretario di quell’organismo, ebbe la possibilità di iniziare a frequentare la corte di Scarpetta Ordelaffi, il nuovo capitano, e di collaborare con la sua cancelleria, a capo della quale si trovava Pellegrino Calvi. Questi fu un personaggio della storia romagnola del Trecento su cui andrebbero effettuati ulteriori studi, se non altro perché, per lungo tempo, stese una cronaca puntuale degli eventi ed ebbe un ruolo di protagonista della vita cittadina nonché nei rapporti fra la famiglia Ordelaffi e i fuoriusciti fiorentini. Ciò si può desumere dalle imbreviature di un notaio di Arezzo, redatte fra il gennaio e l’agosto del 1304, quando Calvi contrasse un mutuo a nome di Scarpetta Ordelaffi e altri prestiti a favore della fazione ghibellina e guelfa bianca in esilio, compreso quello per un figlio del condottiero ghibellino Farinata degli Uberti (1212 – 1264). Pellegrino Calvi conobbe Dante e, almeno in un momento della vita dell’esule, collaborò alla sua azione politica. Essendo poi indubbiamente uomo di cultura, come si può evincere dal ruolo che ricoprì, è molto probabile che abbia mantenuto con Dante relazioni sia politiche sia letterarie, avendo fra l’altro conservato e poi trascritto alcune sue epistole politiche.
Per conoscere a fondo le vicende della famiglia Ordelaffi si consiglia la lettura del libro dello storico Sergio Spada “Gli Ordelaffi. Signori di Forlì e Cesena”, edito nel 2011 dal Ponte Vecchio di Cesena. In questo contesto si ricorda che Scarpetta Ordelaffi (? – 1315) nel 1296 partecipò all’assedio di Imola, in qualità di capitano generale dei ghibellini della Romagna, schierandosi contro le truppe pontificie, atto che gli valse la scomunica papale. Successivamente, a capo della fazione dei guelfi bianchi di Firenze, tentò di ottenere il ritorno degli esuli cacciati dal capoluogo toscano dai neri, organizzando nel 1302 la spedizione che si concluse con una sconfitta avvenuta nel Mugello. Tra i fuoriusciti vi era anche Dante, che Scarpetta ospitò nel 1303, anno in cui si svolse la battaglia nei pressi di Castel Pulicciano, che vide, come si è sottolineato più volte in altri testi, i due schieramenti guidati entrambi da un forlivese. Da un lato per i fuoriusciti fiorentini e i ghibellini il comandante fu proprio Scarpetta, mentre le truppe che combattevano per la città di Firenze erano capitanate dal podestà Fulcieri da Calboli. I due erano già stati nemici a Forlì dove il partito degli Ordelaffi, dopo aver prevalso, aveva cacciato in esilio Fulcieri e altri componenti della sua famiglia. Com’è si è detto, nella battaglia in questione ebbe la meglio quest’ultimo che si distinse per “essersi macchiato le mani di sangue”.
L’odio nei confronti degli Ordelaffi può anche spiegare la particolare spietatezza del trattamento riservato da Fulcieri ai vinti, crudeltà, peraltro, di cui diede prova anche nel corso della sua podesteria, tanto che i cronisti lo ricordarono come “uomo feroce e crudele”. Lo stesso Dante, nel Purgatorio, ne traccia un impietoso ritratto come “cacciator” di carne umana.
Per raggiungere la cascata si parte dal centro di San Benedetto per poi percorrere un sentiero ben curato e non particolarmente impegnativo che si snoda tra la vegetazione che costeggia il fiume e che in parte dovrebbe seguire l’antico percorso toccato da Dante nel primo periodo dell’esilio. Il tempo di percorrenza a piedi, di sola andata, è di circa due ore. Il sentiero scorre lungo la sinistra idrografica del corso d’acqua. Si supera il Molino dei Romiti per giungere a un belvedere da cui si può ammirare l’intera cascata, spettacolare quanto suggestiva, soprattutto quando l’acqua vi scorre abbondante.
Il corso d’acqua nasce dal monte Peschiena, in Toscana, e a San Benedetto in Alpe si congiunge con i torrenti Troncalosso e Rio Destro, il primo proveniente dal Muraglione, il secondo che raccoglie le acque provenienti dalle pendici del monte Gemelli, dando vita al fiume Montone.
San Benedetto in Alpe: dai monaci di Cluny al passaggio di Dante
Le origini dell’antico borgo di San Benedetto in Alpe sono molto antiche. Il primo nucleo abitato venne formato da una colonna romana che risalì la valle. La storia della località è legata soprattutto alla presenza dell’abbazia costruita intorno all’800 dai monaci benedettini di Cluny, detti “monaci neri”. In seguito a donazione di beni e di territori, confermate nel 1014 dall’imperatore Enrico II (973 – 1024), l’abbazia acquistò prestigio, fino a raggiungere il massimo dello splendore agli inizi del 1300; in quel periodo ebbe possedimenti lungo le valli del Montone, del Tramazzo-Marzeno, a Forlimpopoli e a Firenze. Nei pressi sorse così un gruppo di case, che prese il nome di Biforco perché posto vicino alla confluenza dei torrenti Acquacheta e Rio Destro.
Dante Alighieri, nel suo viaggio d’esilio dalla Toscana alla Romagna, sostò presso l’eremo dei Romiti e in seguito presso il monastero, che fu visitato anche da Giovanni Boccaccio (1313 – 1375), uno dei primi commentatori dell’opera e della figura di Dante. Lo scrittore di Certaldo scrisse di aver saputo dall’abate dell’intenzione dei conti Guidi di voler “assai presso di questo luogo (l’abbazia ndr), dove quest’acqua cade, sì come in luogo molto commodo agli abitanti, fare un castello, e ridurcervi entro molte villate datorno i loro vassalli”, proposito che non fu poi mai attuato
“Politicamente, San Benedetto seguì le sorti di Portico”, scrive lo storico Pier Luigi Farolfi, “fin quando, nel 1440, assieme ad altri castelli dell’Alta Romagna, si sottomise all’autorità di Firenze. Come Comune ebbe propri statuti risalenti intorno al 1500. Verso la metà del XIV secolo iniziò la decadenza dell’Abbazia e, nel 1449, papa Alessandro VI (1431 – 1503) prese in consegna i pochi beni e privilegi che essa ancora possedeva, introducendovi l’Ordine di Vallombrosa che restò fino al 1529, anno in cui l’Abbazia fu annessa al Collegio di San Lorenzo in Firenze”. Abbandonata a se stessa l’abbazia decadde, fino a che una parte crollò. Solo allora il capitolo di San Lorenzo intervenne e, nel 1723, ricostruì la chiesa edificandola però solo nella navata destra, sacrificando una parte del chiostro del convento. “In tal modo”, annota Pier Luigi Farolfi, “l’Abbazia – la cui pianta originaria era a croce latina con una vasta cripta che si estendeva, oltre che sotto l’abside, alle due cappelle laterali che formavano il braccio minore della croce – venne snaturata nella sua concezione primitiva, per cui la nuova chiesa risultò più piccola della precedente, perdendo inoltre la caratteristica forma. Della grande cripta – risparmiata dal crollo – è rimasta visibile per molto tempo solo la parte corrispondente alla cappella destra”.
La cripta è stata restaurata diversi decenni fa e merita una visita, come del resto l’intero complesso.
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