

La testimonianza di Gabriele Zelli
Il 2 agosto 1980 è da annoverare fra le date più nefaste per il nostro Paese dal dopoguerra in poi. In quel giorno elementi dell’organizzazione terroristica neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) si resero colpevoli di una delle stragi più efferate che l’Italia ricordi. Alle 10.25 fecero esplodere un ordigno nella sala d’attesa di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna causando la morte di 85 persone e il ferimento di oltre 200. L’attentato, il più grave atto terroristico nella storia della Repubblica Italiana, sconvolse l’Italia e segnò profondamente la memoria collettiva. Tanto che tutti coloro che erano in età adulta ricordano perfettamente cosa stavano facendo in quel giorno nel momento in cui appresero dell’agghiacciante notizia dalla radio o dalla televisione. Personalmente ricordo che di buon mattino mi recai insieme ad altri da Forlì a Cervia perché avevamo deciso di effettuare un volantinaggio sotto la sede del Comune, in piazza Garibaldi, contro la pratica del tiro al piccione. Un’attività molto in voga a quei tempi, che veniva praticata nel campo di tiro di via Jelenia Gora nel luogo dov’è stato successivamente costruito il Centro congressi di Cervia, che veniva contestata su ogni aspetto in un’epoca in cui non esistevano, almeno nella forma strutturata di oggi, i movimenti animalisti. Successivamente il tiro al piccione venne soppresso sia a Cervia sia a livello nazionale.
Mentre stavamo svolgendo opera di sensibilizzazione, dalla sede comunale scese un impiegato che ci informò di quanto era successo a Bologna, anche se in un primo momento si parlò dello scoppio di una caldaia che aveva devastato una parte della stazione della città felsinea.
Ritornai immediatamente a Forlì e rintracciai l’amico Adalberto Erani, che da poco tempo aveva ottenuto la tessera di giornalista pubblicista, e insieme ci precipitammo a Bologna. Senza particolari ostacoli arrivammo davanti alla stazione. Ci si presentò uno scenario sconvolgente che le immagini televisive hanno fatto divenire memoria collettiva italiana. Riuscimmo persino a raggiungere il primo binario dove un treno in sosta era stato colpito dall’esplosione e lo vedemmo completamente devastato. Decine e decine di soccorritori sul piazzale scavavano anche a mani nude, in un atto di generosa solidarietà, alla ricerca dei feriti, ma a quell’ora purtroppo venivano estratti solo corpi maciullati. Vedemmo partire un bus, adibito al trasporto dei feriti, alla volta di uno degli ospedali di Bologna che prontamente, nonostante il periodo estivo e il fine settimana, si erano organizzati per accogliere le centinaia di colpiti. Mentre uno dei bus veniva utilizzato come carro funebre: un’immagine questa impossible da dimenticare. Per non intralciare le operazioni di soccorso ci recammo sotto il loggiato degli edifici di fronte alla stazione. Da uno di questi, precisamente dalla stanza di un albergo, il giornalista Bruno Vespa aveva iniziato una diretta televisiva per Rai Uno. Nonostante la certezza che nel punto dell’esplosione non ci fosse nessuna caldaia e che lo scoppio verificatosi poteva essere stato determinato solo dall’esplosione di una bomba, il noto giornalista continuò per molto altro tempo a dire che la causa del disastro andava ricercata nella deflagrazione avvenuta nella centrale termica. Dal basso la gente, sentendo la diretta dalle TV accese, iniziò ad urlargli ogni sorta di improperi, assolutamente indicibili, perché smettesse di dire falsità. Lo fece solo molto più tardi quando fu conclamato che era avvenuto un atto terroristico. Da quel giorno Bruno Vespa non ha mai goduto del mio apprezzamento.
Delle indagini successive all’attentato, dei depistaggi per proteggere gli esecutori materiali del crimine, della negligenza dimostrata per evitare di scoprire i mandanti di un assassinio collettivo, che tendeva a far morire ogni aspetto democratico della nostra nazione, si sa quasi tutto. Ciò lo si deve ad una città, Bologna, che seppe reagire a quella tragica vicenda e alle forze politiche e sindacali, nonché ai cittadini, che in tutt’Italia si opposero a ogni deriva autoritaria individuando nel terrorismo di destra e in quello di sinistra nemici da combattere e sconfiggere. Così come lo si deve ai magistrati che hanno continuato a indagare. Le ultime condanne comminate a 45 anni da allora stanno a dimostrare il loro impegno costante, sostenuti, e questo va sottolineato, dall’Associazione dei familiari delle vittime che ha svolto un lavoro di sensibilizzazione altamente meritorio.
La città di Bologna non si mobilitò solo per portare soccorso ma fu immediatamente impegnata in una risposta di carattere politico. La sera di sabato 2 agosto 1980 venne indetta una manifestazione in piazza Maggiore, il cuore della città, e il 4 agosto oltre 30.000 persone si ritrovarono nello stesso luogo. Per il giorno dei funerali, il 6 agosto, non fu possibile determinare quante persone fossero presenti. Non ci si riusciva a muovere nelle piazze circostanti piazza Maggiore e nelle strade che le collegano. Via Rizzoli era stracolma fino alle due Torri, via Indipendenza piena fino all’incrocio con via Irnerio. Di questo sono testimone diretto perché ritornai a Bologna proprio in quella circostanza per sostenere il gonfalone del Comune di Dovadola, di cui ero dipendente, con l’allora sindaco Gino Magrini. Non riuscimmo neppure a raggiungere la zona del palco da dove parlò il sindaco Renato Zangheri (1925-2015), con a fianco il presidente della Repubblica Sandro Pertini (1896-1990), che furono gli unici due esponenti politici a non essere contestati come avvenne invece per altri, in particolare per Francesco Cossiga (1928-2010), che svolgeva le funzioni di presidente del Consiglio dei Ministri. Il sindaco Magrini e il sottoscritto, insieme a molti altri rappresentanti dei Comuni italiani, assistemmo alla cerimonia sotto al loggiato del palazzo dalla parte opposta della Chiesa di San Petronio dove, alla base del sagrato, era stato collocato il palco delle autorità, in un clima di tensione sia emotiva sia politica perché consapevoli che le migliaia di presenti avrebbero fatto di tutto per mantenere la democrazia nel nostro Paese. Devo confessare che aleggiava anche molta preoccupazione per il timore di altri attentati, come la strage di piazza della Loggia di sei anni prima stava a dimostrare. Infatti il 28 maggio 1974 un attentato terroristico di matrice neofascista, con collaborazioni da parte di membri dello Stato italiano dell’epoca, servizi segreti ed altre organizzazioni, fu compiuto a Brescia, nella piazza centrale. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione sindacale contro il terrorismo neofascista, provocando la morte di nove persone e il ferimento di altre centodue.
Dal 1980 ho sempre partecipato alla manifestazione del 2 agosto come dipendente del Comune di Dovadola e poi come sindaco, come amministratore del Comune di Forlì e nel corso degli ultimi anni come cittadino che non dimentica. Sarò nel capoluogo regionale anche il prossimo sabato, dove viene ricordato anche il concittadino Silver Sirotti, vittima dell’attentato fascista al Treno Italicus del 4 agosto 1974, dopo che si era prodigato per salvare i passeggeri della carrozza colpita dallo scoppio della bomba collocata dai terroristi neri.
Quest’anno la situazione processuale avviata contro gli autori della strage è cambiata. In passato sono condannati i fascisti Valerio Fioravanti (1958), Francesca Mambro (1959) e Luigi Ciavardini (1962) come esecutori materiali della strage (tutti condannati per questi e altri reati con pene già estinte). Mentre una sentenza definitiva della Cassazione, emessa poche settimane fa, nel luglio 2025, ha confermato la condanna all’ergastolo per Paolo Bellini (1953), ex esponente di Avanguardia Nazionale, accusato di aver avuto un ruolo attivo nell’attentato. La sentenza ha anche confermato le condanne a sei anni per Piergiorgio Segatel (1948), ex capitano dei Carabinieri, per depistaggio, e a quattro anni per Domenico Catracchia, per false informazioni al pubblico ministero. Queste sentenze hanno individuato anche come mandanti o finanziatori membri della loggia massonica P2, tra cui Licio Gelli (1919-2015), Umberto Ortolani (1913-2002), Federico Umberto D’Amato (1919-1996) e Mario Tedeschi (1924-1993), ma troppo tardi per essere sottoposti a un giudizio in tribunale perché nel frattempo deceduti. Ma su questa parte delle indagini ancora molto c’è da scoprire ed è per questo che, come in passato, partecipare alla cerimonia del 2 agosto vuol dire continuare a chiedere verità e giustizia per le vittime e per il Paese.

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