Il ruolo della cooperazione nella rete dei servizi della Bassa Romagna

Questo intervento di Elena Zannoni di Legacoop Romagna è stato presentato sabato 1 marzo 2014, a Lavezzola, in occasione della Tavola Rotonda “La società che cambia: dai servizi socio-assistenziali al welfare di comunitá. In ricordo di Maria Fontana” promossa dall’Unione Comunale PD di Conselice, con il contributo della Fondazione Bella Ciao.

Innanzitutto vi ringrazio dell’invito, mi fa piacere essere stata individuata come rappresentante della cooperazione di questa provincia, nella giornata in cui ricordiamo Maria Fontana, che, come richiama il quaderno che avete prodotto, nel 1953 fu responsabile della commissione femminile della Lega delle Cooperative.

Quelli erano tempi in cui c’era moltissima strada da fare per i diritti delle donne e i temi della conciliazione e la storia di Maria, mi è parsa nel contempo la storia dei servizi, e di conseguenza la storia dell’emancipazione femminile in questo territorio. Non che ora questa strada sia conclusa, ma di certo quelle donne, come Maria, non si limitarono a leggere un bisogno, ma ebbero l’intuizione di pensare al futuro dei servizi.

Io ho sempre immaginato i concetti di servizi alla persona, lavoro ed emancipazione, come i tre angoli di un perfetto triangolo, in cui i servizi sono creati dal lavoro soprattutto femminile, il lavoro e i servizi producono emancipazione.

Nella storia dei nostri territori, le donne che lavoravano nelle cooperative agricole, che si sono unite per creare le cooperative di consumo prima, poi quelle di servizi e dagli anni ’70 in poi le sociali, sono la storia del movimento cooperativo alla pari dei braccianti, dei facchini, degli edili.

Nel mio ufficio è esposto in bella vista un documento del 1955/56, dispensa di un corso di studi che si chiama “Funzioni e compiti delle cooperatrici per lo sviluppo pacifico ed unitario del Movimento”.

In questo opuscolo si racconta che le donne, trovando nella cooperazione uno spazio di discussione democratica, ottennero dapprima di poter essere ammesse a socie delle cooperative, poi ad essere rappresentate negli organismi dirigenti. Nel 1955 a Ravenna si contano 23.282 socie di cooperative, contro le 2.300 di 7 anni prima. 96 di queste sono nei consigli di amministrazione delle cooperative.

96 sono un numero enorme per l’epoca.

Eppure, ancora oggi, proporzionalmente alla base associativa, nei gruppi dirigenti vi sono più uomini che donne, segno che il percorso non è ancora concluso. Per capirci: nella cooperazione, in italia, il 52% dei lavoratori sono donne con punte in alcuni settori che superano il 60%, tuttavia, non accade in nessun settore che la composizione media dei cda veda più del 30% della presenza femminile.

Proporzioni che in provincia di ravenna, sono fortunatamente superate nella cooperazione sociale.

Sul nostro territorio dagli anni ’80 si sono costituite, soprattutto ad opera di giovani e donne, le prime cooperative sociali che hanno contribuito, da quegli anni in avanti, alla grande diffusione dei servizi in questo territorio.

Servizi all’infanzia, agli anziani, successivamente a disabili, adolescenti, immigrati.

Inizialmente questi servizi erano gestiti in convenzione, oggi, oltre alle convenzioni e agli affidamenti tramite appalto abbiamo anche la gestione complessiva in accreditamento e la produzione di servizi propri. Questi passaggi fanno parte della mission stessa delle cooperative, che mettono a riserva gli eventuali utili, per reinvestirli nel territorio e creare nuovo lavoro.

La cooperativa è una forma di impresa in cui i lavoratori sono in gran parte anche i proprietari dell’azienda. Ha dei vantaggi fiscali, piuttosto limitati in realtá, ma ha anche degli obblighi, tra cui quello di non dividere gli utili. Molti di quelli che vengono nei nostri uffici per costituire una cooperativa, si fermano davanti a questa limitazione. Esistono forme di remunerazione dei soci, tra cui il ristorno, ma essenzialmente il reddito dei lavoratori e quindi dei proprietari della cooperativa, sulla base del loro inquadramento, é definito da contratti nazionali di settore. Come per i metalmeccanici, per chi lavora nel commercio o nel pubblico.

Nelle cooperative sociali, lo dicevo prima, lavorano soprattutto le donne. Donne di questi territori. E permettono ad altre donne di lavorare a loro volta, custodendo i loro figli, occupandosi degli anziani, dei disabili, degli adolescenti al di fuori degli orari scolastici. Perché, lo sappiamo, l’impegno della cura è ancora maggiormente a carico delle donne.

Nelle cooperative, dicevo prima, nessuno di divide gli utili, questi vanno a riserva e servono per coprire eventuali anni di difficoltà (e in questi anni le riserve sono state fondamentali per garantire il lavoro) e per fare investimenti e creare nuovo lavoro per i soci.

Due esempi: ad Alfonsine, nel 2011, è nato il nido Pappappero, costruito interamente dalla cooperativa Il Cerchio e che oggi ospita posti comunali in convenzione e privati.

A Bagnacavallo, invece, Zerocento ha aperto nel 1997 la sua prima struttura residenziale socio-riabilitativa del territorio, “Casa Sintoni Residenza”, alla quale è seguito l’avvio nel 2002 di “Casa Sintoni Miniappartamenti”, una nuova tipologia di struttura in grado di accogliere ospiti con disabilità medio/lievi.

La collaborazione con l’Azienda USL territoriale di Ravenna ha infine portato, nel 2008, alla realizzazione della terza struttura, gli Appartamenti Tutelati “Giardino dei Semplici”.

Io ritengo che sia molto importante questo passaggio o almeno la compresenza di servizi in convenzione e spesso a gestione mista, e servizi prodotti o gestiti direttamente. Innanzitutto perché questi ultimi mettono alla prova la capacità imprenditoriale, definiscono l’immagine e lo stile dell’impresa e mettono in competizione positiva le aziende e il pubblico.

Intendiamoci i servizi, sia gestiti da personale pubblico che gestiti da cooperativa sono pubblici. Questa caratteristica deriva dalla tipologia di offerta, dai livelli di assistenza previsti e dai percorsi di accesso, non dalla gestione. I posti in convenzione in un asilo privato, sono un servizio pubblico.

Mi capitava molto spesso, quando per la Lega delle Cooperative ero responsabile del settore sociale, di assistere a battaglie per il mantenimento di gestioni pubbliche su strutture che invece erano da tempo a gestione cooperativa.

“La nostra casa protetta resterà pubblica!” “Certamente, resterà pubblica, quanto alla gestione, non lo è più da 10 anni”.

Compreso questo concetto è forse più semplice comprendere quello che ha significato l’accreditamento in Emilia Romagna.

Un processo che doveva portare al superamento della gara d’appalto e all’individuazione di soggetti accreditati a gestire in maniera unitaria servizi in cui venissero garantiti livelli adeguati di assistenza al prezzo definito a livello regionale sui servizi per anziani e disabili.

E così è stato, in questi anni, accreditando i servizi ai gestori che ne avevano già la titolarità e definendo, servizio per servizio, la tipologia di gestione (pubblica o privata). Ci stiamo avvicinando alla gestione unitaria di servizi che avevano una lunga storia di gestione mista. Badate, non credo che le gestioni miste siano state un aspetto totalmente negativo, anzi, sono state strumentali a un passaggio dolce dalla gestione totalmente pubblica alla gestione sussidiaria tra pubblico e privato sociale che però non aveva mai visto un punto d’approdo e quindi l’accreditamento, in qualche modo, ha anche portato a compimento questo percorso.

Il limite che vedo in questo percorso è che i tempi, rispetto all’avvio del progetto, sono molto cambiati, e ora è abbastanza difficile standardizzare verso altissimi livelli di qualità i servizi, si rischia di ingessare un po’ l’esistente e non avere spazio per sperimentazioni e flessibilità. Di certo un livello di qualità alto è un obiettivo, ma occorre differenziare sempre di più l’offerta per rispondere a esigenze differenziate, altrimenti si rischia di dimenticare che mentre si lavora per questi standard, fuori migliaia di famiglie si organizzano con le badanti.

Accreditare soggetti privati non significa “normalizzarli”, ma certificare che questi soggetti hanno le caratteristiche per gestire un certo tipo di servizio. In questo senso io penso che possa essere una garanzia per l’utente anche un percorso di accreditamento sui servizi a domanda diretta, se vogliamo dare una risposta più ampia possibile, come in molti paesi europei.

Questa contaminazione profonda, tra pubblico e privato così come quella tra il sociale e il sanitario che deriva da un lungo periodo di servizi delegati all’Ausl (è solo la storia più recente dell’organizzazione dei servizi di questo territorio che ha visto il ritiro della delega e la titolarità dell’Unione dei Comuni) ha fatto sì che la Bassa Romagna sia stato terreno di sperimentazioni e appunto, contaminazioni virtuose. Di certo ha contribuito anche la presenza di persone speciali, con la vera passione per queste materie e per il lavoro sociale, persone come Maria.

Ma proviamo a guardare avanti. Abbiamo quindi parlato delle cooperative sociali come soggetti che possono gestire, ma anche produrre servizi o addirittura costruirli. Anzi, questa è propriamente la loro mission, non tanto l’adeguarsi totalmente al modello pubblico, ma esprimere competenze e risorse per migliorare la qualità dell’offerta.

Questo è il welfare locale oggi, ma domani?

Siamo in presenza di finanze pubbliche in grande contrazione e di una domanda di servizi che non accenna a diminuire. Dando per assodato che l’attuale sistema va difeso perché di grande qualità, io credo che la prospettiva per gli enti locali, nel futuro, non possa più essere solo quella di produrre i servizi, ma quella di attivare le risorse del territorio. Attivare le risorse.

Le famiglie, i vicini di casa, i volontari, il privato sociale, l’associazionismo, la scuola, il mondo economico, i sindacati. Ognuno col proprio ruolo, senza far svolgere al volontariato il compito del privato sociale, per esempio, e senza chiedere il contrario, ossia di far lavorare in forma volontaristica o quasi, l’impresa. Ogni soggetto della rete è una risorsa da attivare e far incontrare.

Parliamo molto di città sensibile, di servizi di prossimità, su questo si può sicuramente operare di concerto con il terzo settore.

La cooperazione sociale poi, è per sua natura legata al territorio e in gradi di produrre servizi anche su scala ridotta.

E poi ancora forse è il momento di far cadere le resistenze verso una parte di welfare “autoprodotto” e di cercare di metterlo a sistema. In particolare, il Welfare aziendale che oggi viene usato come strumento di contrattazione.

E va bene anche così. Se non è possibile aumentare il reddito, è possibile realizzare conciliazione oraria, fornire assicurazioni sanitarie, sostenere la maternità e la paternità, permettere ore effettuate in telelavoro, realizzare una rete di aziende per fornire servizi per l’infanzia?

Dare quindi benessere e prevenzione al proprio dipendente, diminuendo anche il costo della sanità pubblica.

Imprese che fanno rete per acquistare servizi per i propri dipendenti dal privato sociale.

Pensate che sia una cosa complicata?

Mi piace portare degli esempi pratici a supporto di queste positivitá. Mio figlio frequenta felicemente un nido interaziendale gestito da cooperative sociali che apre alle 7,30 e chiude alle 18,30 (orario concordato con le aziende partecipanti, sulla base degli orari di lavoro dei dipendenti). Questo mi ha permesso di rientrare al lavoro molto presto, di essere più serena, di organizzarmi meglio.

L’asilo interaziendale, che ha anche una serie di posti privati, ha tutto l’interesse nel rendere il proprio progetto educativo il migliore in città e attrarre famiglie verso di sé: perciò noi siamo gli entusiasti fruitori di laboratori per famiglie, corsi di acquaticità, spettacoli teatrali dedicati.

Quali sono i vantaggi dello sviluppare il welfare aziendale anche in rete, che compensano i costi affrontati?

Cito una ricerca letta recentemente:

Minore assenteismo e turnover

• Miglior clima aziendale

• Vantaggi per l’immagine esterna dell’azienda

• Più partecipazione e coinvolgimento dei dipendenti per i risultati

• Più impegno sul lavoro

• Più dialogo con le rappresentanze sindacali

• Welfare come incentivo al continuo miglioramento

• Utilizzo delle agevolazioni fiscali a vantaggio di entrambi

• Migliore gestione degli orari e coordinamento

E aggiungo: maggiore possibilità delle donne di poter concorrere a ruoli di responsabilità e dirigenziali. Non poco, direi.

Fino ad ora poi ho parlato solo di servizi alla persona, ma se vogliamo completare il quadro della presenza della cooperazione sociale nel territorio della bassa romagna non possiamo dimenticare il contributo essenziale che danno le cooperative di tipo B. Si tratta delle cooperative di inserimento lavorativo, che assumono e danno lavoro a personale svantaggiato.

Spazzamento, raccolta differenziata, servizi di custodia, servizi di sfalcio, pese e aree ecologiche: queste sono alcune delle attività realizzate dalle persone svantaggiate che così percepiscono un reddito per il lavoro che fanno e che altrimenti sarebbero a carico degli enti locali. Questo cerchiamo di spiegarlo ogni volta che ci viene contestato che un servizio di sfalcio realizzato da una cooperativa sociale b costa di più di quello realizzato da una ditta di “normodotati”. E evidente che la produttività è inferiore. Però al costo del servizio andrebbero sottratti i risparmi maturati nella comunità nel non avere a carico la persona che così intraprende la strada dell’autonomia personale, e questo, a volte, con miopia, non viene considerato.

Elena Zannoni – Resp. Settore Lavoro Legacoop Romagna

 

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