Nuovo racconto di Jacopo Rinaldini
CESENA. Nonostante abbia pubblicato “Macchinine”, libro di poesie, Jacopo Rinaldini ha trovato il tempo per tornare a scrivere su Romagnapost. Lo fa con un ricordo personale: un faccia a faccia con un vecchio aeroplano che ha definitivamente parcheggiato le sue arruginite “ossa” in un prato.
In sella alla bicicletta sottratta a mio padre, una Cobran d’argento, pedalando al fianco della mia guida personale, Simone, fratello in atti pirateschi, attraversammo i bastioni della vasta landa della campagna pordenonese: una serie di segrete crisalidi smeraldine bagnate di tempera. Verde talmente intenso da apparire abbacinante ai nostri occhi offuscati dai giochi luminescenti del sole di luglio. Oltre le statali cariche di pesante traffico, le ariose campagne di Ceolini. Pordenone era da qualche parte oltre il gomitolo di strade bianche e polverose. Simone, assecondando la mia passione per gli aeroplani, mi portò a far vista ad un malandato gigante di ferro: la ruggine persino sui pochi vetri intatti. Un Caravelle abbandonato a sé stesso, aeroplano dai motori senza soffio vitale, stravaccato su un prato, dimenticato come una cartaccia lasciata ai margini delle strade. Sole, pioggia, estati, inverni, ghiaccio, vento, grandine e gli atti barbarici dei monelli a caccia d’una reliquia come unici compagni, amici, di prigionia terrestre. Uno scheletro immane schiacciato dal peso dell’inutilità, dell’obsolescenza, deturpato dai refusi del tempo.
Affascinato rimasi dinanzi al muso puntato verso le Alpi, un muso su cui, però, aleggiava l’amara consapevolezza del termine ultimo, di un decollo che mai più avrebbe avuto luogo. Il timone, contornato da lamiere ritorte, eroso dalla ruggine, avvolto dagli arbusti e da edere fameliche, era al suolo. Mi raccontarono, dopo diversi giorni, che quel vagone volante sarebbe dovuto diventare una gelateria, ma la burocrazia fece precipitare la bizzarra impresa e il Caravelle si avvitò tra i vuoti d’aria dello sconforto. Nonostante i lustri, nonostante la mia barba incanutisca poco a poco, nonostante gli sconvolgimenti so che quell’amico, quel gigante dell’aria senza aviatore, è tuttora là a ricordare le vecchie altitudini raggiunte, a raccontare, inascoltato, la propria storia alla ragazzaglia armata di bombolette coloratissime. E’ là, vestito di morbido muschio a guisa d’un antichissimo genio della natura, una divinità maestosa in fase di disfacimento progressivo. Ogni notte, nel cuore del sonno, sussurro ai riflessi cupi sul muro una preghiera pagana rivolta alla corriera del cielo. Odo uno strofinio di parole, un canto metallico che accarezza, pianissimo, le mie gambe: è l’autorizzazione al decollo.
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