Il 3 marzo il 68% degli svizzeri ha votato sì al referendum per porre un tetto agli stipendi dei manager delle aziende quotate in borsa. Sorpresa: quasi tutti i partiti erano contrari e la Confindustria elvetica aveva investito 6,5 milioni di euro nella campagna per il no. Avranno influito episodi clamorosi come la buonuscita di 60 milioni di euro al presidente della Novartis (che pare abbia rinunciato a incassarla), ma i cittadini intervistati sottolineavano l’inopportunità che i dirigenti prendessero retribuzioni 200 volte superiori a quelle degli impiegati.
Perché non fare una consultazione simile in Italia, estendendola ai manager pubblici? Si è letto per esempio che il presidente dell’Authority per l’energia guadagna 475 mila euro, circa 100 mila in più di Barack Obama. Tutti dei fuoriclasse? Macchè, salvo rari casi le performance dei manager, pubblici e privati, sono talmente modeste (a volte fallimentari) da non fornire giustificazioni a tali somme.
I cantori del Mercato, dopo aver biasimato la scelta svizzera, hanno ripetuto il solito refrain: non si può porre limite ai compensi dei manager, se no i migliori se ne vanno. Teorie. Al contrario, si sa che la scelta del posto di lavoro è influenzata da vari fattori, come le opportunità di crescita professionale, l’ambiente di lavoro, il luogo geografico, la coerenza dell’azienda con i propri valori. Quando nacque, la Banca Popolare Etica pose una forbice massima di 1 a 4 fra gli stipendi degli impiegati e dei dirigenti. A chi obiettava che i migliori se ne sarebbero andati, i fondatori dell’istituto rispondevano così: «Se un manager pensa che il danaro che percepisce è la sola misura del suo valore, è bene che vada a lavorare altrove. I nostri valori sono altri».
Fabio Gavelli
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