Un petalo della Città dei fiori, il bazar (Peshawar, Pakistan)

Appunto di viaggio su tela di Jacopo Rinaldini

Nuova pinta di “Appunti di viaggio su tela” di Jacopo Rinaldini. Questa volta fa tappa a Peshawar, Pakistan.

Una carta geografica male in arnese, ingiallita e un po’ ritorta nei bordi, diventa un lasciapassare preziosissimo, al pari di un biglietto aereo della “Pakistan International Airlines”.
Mi pare di sentire la eco dei motori che rullano infaticabili sulla pista.
Odori pungenti, sorrisi e voci acute cullano il mio viaggiare domestico: avverto il peso della cintura di sicurezza del sedile, la quale mi abbraccia come un’ amante silenziosa che vuole unicamente il mio bene, alla mia sinistra un oblò che illumina la stanza con le luci di un universo sospeso tra due mondi: d’un tratto hostess indaffarate si accalcano in un corridoio stretto tra due ali di poltrone. Sotto ai loro piedi una moquette verde, lisa nel centro: un prato artificiale che corre tra le colonne che sorreggono la mia fantasia.

Voliamo al ritmo di arabeschi musicali che s’annodano voluttuosamente alle nuvole sotto di noi: una traccia del nostro passaggio di cui non si accorgerà mai alcuno. Non ha importanza: la meta mi sta chiamando a gran voce, urla il mio nome. E’ urdu quello che odo dentro di me. Rispondo con le sillabe che sgorgano dal cuore: linguaggio antico e nuovo impastato di lemmi comprensibili a qualsiasi latitudine, perché in questa dimensione non esistono frontiere, confini, mura e bandiere.
Pakistan, controverso Pakistan, ti stringo tra le mani e le pieghe dei sogni. Sto arrivando.
Sotto al mio corpo si ergono dal terreno le montagne della Valle dello Hunza: rimembro con nostalgia soffocata quel piccolo romanzo del 1933 del britannico James Hilton, “Orizzonte perduto”, da cui non mi stacco mai. E’ un viatico a cui mi risulta impossibile rinunciare. Poche pagine a cui credo, poiché a dispetto dei satelliti e del livello di tecnologia perfetta raggiunto, sconfinante sempre più nel torbido e nel morboso, ci dovrà pur essere, sulla faccia della terra, un punto oscuro, sconosciuto, in odor di magia.
L’inglese è riuscito a trovare lo “Shangri-la”, sostanzialmente l’Eden, tra le pagine del suo libro; io lo cerco tuttora, ma questo è un cammino lungo milioni di leghe che non si esaurirà mai.
Voglio credere alle leggende, ai miti a ciò che punteggia di colore il cielo della speranza, delle fede, del misticismo.
Viaggiatori del 1500 narrano che nei villaggi della Valle dello Hunza ci siano vetusti e canuti uomini di oltre centovent’anni, che vi si trovino donne in grado di partorire sino ai novant’anni. Si tratta esclusivamente di invenzioni letterarie? La risposta è ovvia, ma non per me. Non permetterò che qualcuno mi defraudi del gusto dell’avventura e della scoperta. Ho interi taccuini da riempire.

Il mio divano alato atterra con stridii di gomme che mordono l’asfalto della pista. Davanti al mio volto, nelle sue eccentricità di colore, ecco Peshawar: importantissimo snodo situato lungo la Via della Seta, antica di oltre duemila anni, deve il suo appellativo “Città dei fiori” alla dominazione Moghul.
Fu in questo periodo, infatti, che venne abbellita con una delicata ricercatezza: non videro la luce stolidi monumenti di condottieri o chissà quali artifici, bensì fu piantato un numero elevatissimo di alberi e lungo le vie principali piante da cui sbocciavano fiori rosa.
I punti nevralgici della Città dei fiori erano i giardini, i quali profumavano di erba tagliata e davano al luogo un aspetto originale in cui la vera dominatrice era la natura.
Un mondo come il mio, figlio delle colate di cemento, avrebbe molto da imparare se volgesse lo sguardo un po’ più a est.

Jacopo Rinaldini


E’ un luogo di frontiera, l’Afghanistan non dista poi molto, e come tale rappresenta un crocevia per numerose etnie. C’è un clima di convivenza e rispetto.
Penso subito a Trieste, città nella quale convivono perlomeno tre gruppi linguistici differenti. Mondi lontanissimi: a Ovest una città di mare mitteleuropea elegante e leziosa, a Est un groviglio di storia e dominazioni con alle spalle la scenografia della Via della Seta, eppure hanno caratteristiche simili.

Tuk-Tuk veloci zigzagano nel traffico convulso e pulsante. Occhi spalancati mi fissano dapprima con una manifesta curiosità, poi, con sempre maggiore familiarità.
Mi tendono la mano, la stringo con calore e si sgretola, in quell’istante, la paura. Paura di cosa, poi?
La popolazione è ospitale e molti si offrono di farmi da guida. Non posso accettare. Devo vedere il mercato: sono qui per questo. Tralascio ogni convenevole e mi dirigo verso il luogo agognato.


Clacson che suonano senza posa cacofonie disturbanti, fumi più o meno irrespirabili, i quali fuoriescono da canne fumarie improvvisate che fanno bella mostra di loro direttamente sulle facciate delle botteghe che offrono “street-food” locale e devo dire che da queste parti il “kabab” vince a mani basse sul “Burger King”, motociclette di produzione cinese invadono i marciapiede, automobili decorate con un gusto tra il dadaista e il surrealista con una vena di religiosa ironia: sui parabrezza si legge “Bismillah” o “Masha Allah” benedizioni rivolte a chi guida e agli automobilisti incontrati lungo la strada. Ce n’è bisogno, dal momento che non credo esista neppure un codice della strada. Se esiste, non lo legge nessuno.


Sulle facciate di palazzi quantomeno pittoreschi sono appese insegne dagli accostamenti cromatici improbabili. Mi piacciono, penso anche siano efficaci: alla faccia dei nostri master in marketing o in scienze della comunicazione pubblicitaria.

La folla e il trambusto mi indicano che sono giunto a destinazione: il mercato di Peshawar.
Vengo spinto ripetutamente e ciò che mi colpisce più d’ogni altra cosa è la disarmonia dei colori, la quale rende unico il luogo che sto vivendo. Il tetto è ricoperto da lamiera ondulata, l’illuminazione è precaria: fili neri da cui penzolano lampadine.
I prezzi vengono strappati a seguito di una contrattazione ardimentosa e al limite della ragionevolezza. Sorrisi, urla, strette di mano e involti pieni di verdure, carne, spezie, tessuti e sandali fatti a mano. Sopravvive il mondo del mercato dal volto umano, sopravvive perché più forte dei grandi “Mall” d’importazione americana. Non esiste la figura del “Category Manager”, non c’è pianificazione delle vendite che s’insinua tra le larghe maglie dell’ipocrisia. Non si fanno ricerche di mercato: il venditore offre i prodotti del suo campo, la carne dei suoi animali, le stoffe preparate e piegate dalle mani della moglie.
Qualche “avanguardista” tenta di vendere camicie made in China di tessuto sintetico, lucidissimo: illuso, qui è ancora il kurta pijama a coprire i corpi degli uomini.
Ci siamo lasciati strappare questa schizofrenica bellezza, ci siamo lasciati invasare dai volantini dei supermercati infilati nelle buchette della posta. Non sappiamo più “comprare” e l’unica soddisfazione è proporzionale alla cifra spesa: è il tempo che vale la pena d’essere vissuto che non ci possiamo più permettere.


Fortunatamente, e ciò mi conforta oltremodo, ho la certezza che in questo angolo di mondo, seppur tra mille difficoltà, vi è ancora qualcuno che è consapevole dell’importanza del proprio tempo e resiste dinanzi all’apparente inevitabilità dell’avanzata del mondo moderno.
Vengo destato dalla litania di una réclame di una nota catena di supermercati: a partire da oggi grandi offerte su prodotti d’ogni sorta. Ricomincia la corsa.

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Davide Buratti

Davide Buratti, giornalista professionista, fondatore della Cooperativa Editoriale Giornali Associati che pubblica il Corriere Romagna, di cui dal 1994 e per 20 anni è stato responsabile della redazione di Cesena. Oggi in pensione scrive di politica, economia e attualità a 360 gradi nel suo blog per Romagna Post. Per contatti utilizzate il box commenti sotto gli articoli. 

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