Nei giorni scorsi il Comitato Pro Forlì Storico-Artistica ha promosso diverse iniziative per ricordare il terribile bombardamento alleato del 19 maggio 1944 che sconvolse la città e causò oltre 125 morti civili, 16 militari, senza dimenticare i 430 feriti civili e i 25 militari. A ciò va aggiunto che 32 case furono distrutte e 22 pesantemente danneggiate, inoltre riportarono danni le aziende collocate lungo la ferrovia, vero obiettivo delle oltre 130 bombe sganciate.
Nel corso di una delle camminate che hanno ripercorso i luoghi colpiti dal bombardamento, i figli di Walter Gardini hanno consegnato a Gabriele Zelli il resoconto della giornata scritto dal loro padre, deceduto qualche anno fa, che visse quei drammatici momenti perché al lavoro presso la Stazione ferroviaria di Forlì. Il testo viene di seguito riportato per l’importanza che la testimonianza fornisce per la ricostruzione dei tragici fatti.
19 maggio 1944
di Walter Gardini
Nel tepore delle coltri attendevo la fiaba suggestiva dell’alba. Il suono irriverente e ostinato della sveglia mi tolse dal sonno, ma non mi irritò più di tanto. Alle sei meno dieci ero già fuori casa, pronto ad affrontare una intensa mattinata di lavoro nella stazione ferroviaria di Forlì. Era un dolce mattino di maggio, silenzio e natura si confrontavano cercando di decifrare l’enigma dell’esistenza. Un cielo chiaro e sonnolento, un vento mite e carezzevole mi accompagnarono nel breve tragitto.
Nel controfirmare la consegna del collega smontante notai con sollievo che il movimento dei treni era intenso ma regolare e l’impianto tecnico della stazione normale ed efficiente.
La stazione era come una città in continuo movimento; viaggiatori, militari, studenti, impiegati, operai, abbonati, ferrovieri formavano il tessuto vivente di quell’angolo appartato ma attivo del centro abitato. La circolazione treni era regolata dal capo stazione interno, io, come capo stazione esterno, avevo il compito del licenziamento treni, sia viaggiatori che merci. Ero giovane, entusiasta e il lavoro mi piaceva, ma quel giorno, un venerdì… era il 19 maggio 1944!
La guerra era stata vissuta da noi forlivesi solo attraverso sfuocate e drammatiche immagini, testimonianze indirette di lutti e distruzioni, ma adesso il fronte bellico faceva sentire in lontananza il sordo brontolio dei cannoni, che i treni militari carichi di truppe e armamenti transitavano da Forlì sempre più numerosi, che le fortezze volanti con il loro carico di morte oscuravano a più riprese il cielo, adesso la guerra aveva scelto come teatro delle operazioni anche il nostro territorio.
Erano passate da poco le 8.00, quando all’unisono suonarono tutte le sirene annuncianti il primo allarme aereo della giornata. Come deprecabile abitudine mi trovai con altri col capo rivolto in su in attesa di vedere le sagome imponenti dei bombardieri alleati in navigazione aerea puntare verso nord. Era sciocco, era puerile, ora lo so, ma in molti di noi si era formato il convincimento che Forlì, mancando di obiettivi strategicamente importanti, non avrebbe mai subito incursioni aeree.
Poco dopo suonò il cessato allarme ed ognuno riprese sollecito il proprio lavoro, ma…alle ore 9.45 il secondo allarme fu segnalato con sconcertante e ingiustificato ritardo e l’urlo lacerante delle sirene risuonò angosciante come sinistro presagio.
Le fortezze volanti quasi immobili si stagliavano nitide e minacciose sul cielo della città pronte a colpire il bersaglio prefissato; ad un tratto, da un aereo, forse quello a capo della formazione, fuoriuscì un bianco, sferico segnale luminoso. Seguirono alcuni attimi drammatici e terribili. Il sibilo delle bombe che cadevano a grappoli nella zona della stazione lo percepii distintamente solo quando ero già al sicuro nel rifugio antiaereo. Per noi ferrovieri e per tutta una città incredula e terrorizzata fu un battesimo terrificante e crudele. Fu una incursione piuttosto pesante. Decine e decine di bombe furono sganciate in due ondate successive portando nello scalo ferroviario e nelle zone limitrofe morte e distruzione, il volume dei boati e delle esplosioni era talmente forte da impedire quasi il pensare. Era il primo inequivocabile avvertimento alla città, era un monito terribile e inquietante.
Il segnale del cessato allarme fu accolto con visibile gioia, ma anche con grande apprensione. Mezzo stordito e con una strana sensazione di vuoto allo stomaco mi avviai lentamente verso l’uscita del rifugio afferrandomi con forza ad ogni appiglio… per la prima volta avrei visto l’effetto apocalittico e devastante di un bombardamento aereo.
Il piazzale della stazione era disseminato di crateri, da travi metalliche e rotaie contorte, distrutte quasi completamente le pensiline del secondo e terzo marciapiede, le cui travate metalliche penzolavano dalle strutture portanti. Qua e là, divelti e distesi sul terreno, pali di sostegno della segnaletica ferroviaria, una colonna idraulica strappata dal suolo e scaraventata lontano. Macerie, rottami, rovine sparse un po’ dappertutto, nei binari utilizzati per il servizio merci vagoni rovesciati, sventrati, semidistrutti. Lingue di fuoco guizzavano rapide e improvvise da alcuni carri carichi di fibre artificiali, dense volute di fumo acre e irritante si muovevano lente nell’aria. Il fabbricato viaggiatori, solo sfiorato dalle bombe, presentava alcuni muri sbrecciati nel lato nord, a poca distanza, nel piazzale della Grande Velocità un terrapieno paraschegge era andato completamente distrutto.
Dopo un comprensibile periodo di smarrimento, anche noi ferrovieri ci unimmo a vigili del fuoco, militari, volontari nella triste e pietosa opera di recupero dei morti e di soccorso ai feriti. Con il cuore in tumulto, le mani tremanti, gli occhi lucidi ci prodigammo senza un attimo di sosta in quello scenario terrificante di devastazione e rovine. Sul finire ci ritrovammo esausti e con l’angoscia dipinta sul volto, la gola arida, le labbra asciutte, la voce fievole ci scambiammo dati, notizie, sensazioni. Fu un tragico crudele bilancio, una decina tra morti e dispersi. Quattro erano ferrovieri con i quali solo poche ore prima avevo avuto rapporti di lavoro, due, un manovratore e un ausiliario, dipendevano dalla stazione di Forlì, gli altri, un macchinista e il suo vice, dipendevano dal Deposito Locomotive di Rimini.
Quel mattino il tempo si mostrò impietoso, pareva non volesse trascorrere mai; poi, finalmente, venne l’ora di staccare. Io abitavo nel fabbricato della vecchia stazione che dal 1927, dopo l’inaugurazione di quella nuova, era divenuta la sede del D.L.F. e alloggio per numerose famiglie di ferrovieri. La vicinanza allo scalo ferroviario, la presenza di fabbriche e stabilimenti furono forse la causa scatenante del cruento e violento bombardamento che colpì anche il nostro quartiere, il Rione San Pietro. Decine e decine furono i morti, numerosi i feriti, gruppi di case completamente distrutte, ammassi imponenti di macerie e rovine dove prima erano negozi, uffici, abitazioni.
Il bombardamento aveva cancellato le tracce di una civiltà altamente produttiva.
Fortunatamente la mia casa era illesa e i miei familiari sani e salvi. Non credevo ai miei occhi! Avevo lasciato devastazione e rovine e mi ritrovavo dove il dolore, il pianto, l’angoscia erano l’immagine ben visibile della disperazione.
Stavo chiedendomi il perché di tanta crudeltà umana, quando mi ritrovai con gli occhi rivolti verso l’alto, rivolti in quello spazio di cielo dove prima erano le gigantesche ali della morte. Un sole caldo distribuiva benevolo il calore dei suoi raggi, uno stormo di uccelli in volo battente si nutriva di luce, una campana dal suono liberatorio dava voce e speranza a una città in lacrime.
La vita si riaffacciava discreta, in punta di piedi.
… E giunse la notte, ma non il sonno. Guardavo stupito le stelle, sembravano lacrime, lacrime di un cielo incollerito che mostrava vergogna dell’indegnità e bassezza degli uomini.
Ho provato a dimenticare quel giorno, ho provato a cancellare dalla mente il ricordo della mia voce che implorante invocava aiuto, ma, vinto, il mio cuore ha affondato le radici della sofferenza sulla terra arida e indifferente.
Oggi sono come tanti un uomo libero, ma la mia anima, lo sento, è ancora prigioniera del passato.
Questo post è stato letto 178 volte