Fu istituita dopo la Liberazione della Romagna
Proseguendo il racconto sullo sminamento del territorio forlivese subito dopo il passaggio del fronte occorre ricordare che esistevano molti tipi di mine antiuomo, si andava dalla terribile “S” tedesca che veniva interrata lasciando spuntare solo un sensore. Il dispositivo se calpestato attivava una piccola carica faceva saltare fuori dal terreno la mina che poi esplodeva in aria lanciando all’intorno una grande quantità di pezzetti di metallo. C’erano inoltre le piccole scatole di legno nascoste nel terreno che esplodevano se calpestate, le mine in vetro o quelle dotate di un filo teso tra l’erba che, se veniva inavvertitamente strappato, faceva esplodere la carica.
Una rara foto dell’epoca, qui pubblicata, che mi è stata fornita da Fabio Blaco, che da sempre si interessa della storia del periodo bellico, mostra uno sminatore con diversi ordigni appena resi innocui. Sul retro dell’immagine è riportata questa annotazione: “Mine tedesche trovate in un campo sulla via Emilia presso il Ronco (Forlì). Queste mine impiegate per la prima volta dove sono state trovate, erano dette di “vetro” perché non erano localizzabili dai metal detector in uso agli eserciti alleati”.
Cessata la guerra ci si rese immediatamente conto che uno dei principali problemi da risolvere fra i tanti altri, era rappresentato proprio dalle mine, dagli ordigni, dagli esplosivi e dagli altri residuati bellici. Questi, disposti nelle maniere più impensate e per le ragioni più disparate erano, in ogni modo, in grado di scoppiare al minimo urto e di distruggere tutto ciò che era nel loro raggio d’azione. Le bombe d’aereo inesplose, forse per la loro notevole dimensione, erano quelle che più prudentemente venivano evitate, le granate ed i proiettili il più delle volte, per il loro aspetto che ne indicava chiaramente la natura, erano trattate analogamente con prudente timore; le mine invece costituivano l’insidia più diretta e nociva perché, occultate e distribuite specialmente nei punti di più facile passaggio e percorrenza, distruggevano sia mezzi, sia macchine, sia uomini. Per questa ragione la situazione dei campi minati era tale da richiedere un’organizzazione di bonifica vasta ed urgente dopo la prima effettuata sulle strade principali dai militari inglesi. Occorre evidenziare che nel forlivese gli incaricati dello sminamento all’interno dell’Ottava Armata inglese erano i soldati di origine Sikh, provenienti in gran parte dall’India e per questo detti “indiani”. Diversi di loro sono sepolti nel Cimitero di Guerra indiano di via Ravegnana, come è stato accertato in più occasioni.
Racconta Massimo Tesei, fra i fondatore dell’Associazione “Forlì Città Aperta”: “Forse non ci sono più forlivesi che ricordino di aver visto le pire costruite vicino al Cimitero Monumentale per bruciare i corpi dei Sikh, secondo la loro tradizione religiosa, morti nell’atto di sminare (oltre che nei combattimenti). Ho ascoltato molti ricordi di quel periodo dalla viva voce di molti Sikh presenti in un agosto di più di 10 anni fa a uno dei tradizionali incontri davanti al cimitero monumentale di Forlì, dove tutti gli anni i Sikh dell’Emilia si incontrano. Ce n’era in particolare uno anzianissimo, sempre seduto in una sedia con attorno tanti ascoltatori, che aveva fatto lo sminatore proprio a Forlì. E mi raccontò che anche alcuni forlivesi lavoravano già con loro e uno morì e, per sua specifica richiesta scritta, fu anche lui bruciato in una pira insieme a un altro sminatore Sikh”.
L’impiego delle mine
“L’impiego delle mine era stato largamente usato, si legge in un documento presente sul sito dell’Associazione Nazionale Combattenti Forze Armate Guerra di Liberazione che riprende uno studio del generale Antonio Torregrossa, quale ostacolo attivo laddove si erano temuti sbarchi o si svolgevano azioni di resistenza con conseguente sosta, più o meno prolungata, da parte delle truppe operanti. Nello specifico le zone più colpite furono le coste della Sicilia, cui seguirono quelle della costa Calabra, delle teste di sbarco di Salerno e di Anzio, della linea “Gustav” sul Volturno e Garigliano, della linea “Hitler” a Cassino, quelli della Toscana e dell’Umbria e quelli della Linea “Gotica” nelle Marche, nell’Emilia-Romagna, in Toscana ed in Liguria. A queste principali linee di sbarramento o sarebbe corretto dire d’arresto, vanno aggiunte quelle minori di taluni settori costieri della Sardegna, Liguria e Veneto. In più altre numerose zone minate furono lasciate qua e là a protezione dei depositi, magazzini, comandi, lungo le strade ordinarie, ferrovie, canali, idrovie, elettrodotti, impianti industriali, ponti, case.
È bene ricordare che l’infestazione da mine e da altri ordigni bellici poteva essere di due tipi:
1) Infestazioni da residuati in superficie su terreno od altro genere d’immobili o cose,
che dovevano essere rastrellati, rimossi, resi inoffensivi e in ogni caso, eliminati o distrutti;
2) Infestazione da mine, bombe, granate, esplosivi od analoghi manufatti, da ricercare perché interrati in sbarramenti minati o posizionati per la distruzione di ponti, strade, ferrovie od
altre opere d’arte; ma anche il seppellimento di grandi quantitativi di bombe e granate,
l’abbandono d’ordigni in postazione d’artiglieria, sul fondo di fiumi, canali ed altri specchi
d’acqua. (…) Precisare il numero e l’estensione dei campi minati sarebbe oggi impossibile, perché molti erano stati manomessi nel corso della guerra, posati senza alcuna registrazione o modificati dai reparti combattenti per esigenze i tipo pratico. Furono proprio le variazioni intervenute nel tempo a rendere veramente ardue le operazioni di sminamento integrale. Tanto è vero che quando si fu in possesso dei piani militari di posa degli sbarramenti minati, questi furono utilizzati, di massima, a solo titolo orientativo, visto che la maggior parte dei campi minati, all’atto della bonifica, si presentarono in condizioni differenti da quelle descritte nel piano originario”.
“La prima urgente azione di bonifica dai campi minati, scrive il generale Antonio Torregrossa, già Capo sezione Bonifiche Campi Minati (B.C.M.) della Sesta Direzione Genio Militare, fu affidata a reparti scelti, dapprima inglesi, americani e polacchi e poi italiani, che agirono sia per fini militari, sia per reali esigenze di pubblica utilità. Il 12 luglio 1944, Il Ministero della Guerra ordinò la mobilitazione delle forze militari bonificatrici dei campi minati con la costituzione della 561TM e 562TM, Compagnia Rastrellatori Mine. Nel maggio 1945 la 562TM compagnia fu trasferita dalla base di addestramento di Silvi Marina a Ravenna. Fu proprio in Emilia Romagna che, nel giugno di quell’anno assunse nuova dislocazione anche la 562TM Compagnia Rastrellatori Mine, per far fronte ad urgenti opere di bonifica di particolare interesse pubblico. Dopo due mesi di lavoro a Pavullo (Modena) la Compagnia si trasferì a Bagnacavallo nel mese di agosto del 1945.
Con il coordinamento del lavoro, si realizzarono risultati sorprendenti, tanto che il pericolo delle mine venne allontanato dai tratti degli argini dei corsi d’acqua della “Bassa Emiliana” dove erano state convogliate tutte le forze bonificatrici, per consentire alle imprese edili di procedere con la ricostruzione.
L’ultimo gruppo di soldati rastrellatori di mine attivo fu quello della 564TM Compagnia che, nel
gennaio 1946, da Lugo di Romagna dove aveva agito, fu trasferita a Venezia. Qui, insieme a due ufficiali già in loco, uno proveniente dalla scuola B.C.M. di Forlì e l’altro dalle bonifiche della Val di Chiana in Provincia di Arezzo, costituirono il primo nucleo del Comando Sottozona che poi si stabilì definitivamente a Mogliano Veneto”.
La Scuola di Bonifiche Campi Minati (B.C.M.) di Forlì
Le operazione di bonifica furono inizialmente sottoposte alla Direzione generale del Genio con l’impiego di apposite compagnie militari. Gruppi di bonifica territoriale, istruiti ed inquadrati sempre dall’esercito, si prodigarono subito dopo il passaggio del fronte nei territori costieri del riminese, da Riccione a Villamarina, nei vicini rilievi appenninici e nelle campagne della Bassa Romagna tra Budrio, Lugo e nel ravennate. Risultarono infatti abbondantemente minati dall’esercito tedesco il litorale adriatico, come forma precauzionale contro eventuali sbarchi, le aree ed i crinali pedemontani posti lungo la Linea Gotica e le zone attigue al fiume Senio e gli altri corsi di acqua che essendo in piena a causa di forti e persistenti piogge bloccarono l’avanzata degli Alleati.
L’esigenza di bonificare al più presto ampie aree richiese I’impiego di parecchio personale. Per tentare di prepararlo adeguatamente, già nel novembre 1944 fu allestita a Forlì una Scuola Bonifica Campi Minati, diretta dal tenente Salvatori, un ufficiale del Regio Esercito.
Se i corsi preparatori per chi intraprese questa attività troppo spesso non riguardarono una esatta descrizione di tutti i tipi di mine, e neanche sulle trappole ad esse applicate, approssimativi furono anche gli strumenti usati: un semplice punzone appuntito, con cui sondare il terreno, indossando un paio di stivaloni fino a mezza gamba. A queste incresciose condizioni si aggiunsero anche difficoltà pratiche: sui terreni minati sterpaglie ed arbusti ostacolarono una veloce bonifica, gli assestamenti degli argini e dei greti dei fiumi rendevano non facile l’individuazione di ordigni ora coperti da strati di melma ed inoltre quelli magnetici divennero con il passare del tempo sempre più instabili tanto da poter esplodere al minimo contatto.
“Lungo le spiagge a Nord di Rimini, sono sempre parole dei due studiosi, ci si accorse che a mine anticarro erano collegate quelle antiuomo, cosicché alla deflagrazione di queste ultime seguivano, in modo ben più disastroso, anche quella delle prime. In ogni caso ad incentivare l’afflusso di addetti verso un mestiere difficile e pericoloso (solo in Emilia-Romagna la percentuale dei morti relativamente al totale nazionale raggiunse circa il 33%) influì sia l’onnipresente mancanza di lavoro che la paga, più che dignitosa se si consideravano i tempi. Giovani disoccupati, e fra questi ex-partigiani, ingrossarono quindi le fila dei gruppi di lavoro. In un certo qual modo si ripeté, così come nella guerra partigiana, quella spontanea affluenza popolare estranea alla nomenclatura ufficiale ed alla storia d’élite. La maggior parte degli sminatori aveva vent’anni e per molti di questi la guerra cominciò quando quella degli altri era già finita”.
Ai militari subentrarono i civili perché il lavoro da compiere era enorme, oltretutto ogni operazione comportava l’impiego di molto tempo. Per cercare di istruire chi aveva accettato di svolgere questa pericolosa attività furono molto importanti i corsi organizzati dal tenente Salvatori presso la scuola istituita nella nostra città.
Dalla ricerca effettuata a Faenza si apprende che nel febbraio del 1945, a seguito di accordi con il Comitato di Liberazione Nazionale di quella città, un gruppo di 40 volontari faentini si iscrisse al corso forlivese. Erano giovani, studenti, lavoratori, ex partigiani che decisero di assumersi questo difficile compito, che sebbene fosse abbastanza ben retribuito, comportava un rischio altissimo. Ottenuto il brevetto da rastrellatore dopo poco più di un mese, iniziarono il loro servizio sotto il coordinamento di un ex militare faentino, Francesco Spada. I membri di quella squadra pagarono un alto tributo di sangue, 11 di loro morirono, 6 rimasero mutilati e 3 feriti.
In un terzo ed ultimo testo ricorderò il momento della collocazione della lapide che ricorda gli sminatori forlivesi deceduti sotto l’androne del Palazzo Comunale.
Gabriele Zelli
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