A Messina stanno riaprendo lo storico Birrificio, l’unico della Sicilia, chiuso nel 2011. A Cavriago, nel Reggiano, un’azienda tessile, a Bertinoro un’impresa di segnali stradali. Ancora: ad Avellino ha ripreso vita una realtà della meccanica di precisione, a Cingoli (Macerata) l’iniziativa è stata presa da un gruppo di sarte. Cos’hanno in comune queste esperienze? Si tratta di lavoratori licenziati o rimasti senza lavoro che hanno acquisito la fabbrica, tramite una cooperativa. In inglese si chiamano workers buyout e stanno diventando un caso. Perché si contano a decine le imprese “risorte”, una stima sommaria parla di migliaia di lavoratori che sono riusciti a conservare il posto di lavoro. È cambiato il loro status: da dipendenti a soci. Sono aumentate le responsabilità, le difficoltà sono notevoli, del resto se avessero avuto il vento in poppa, le aziende originarie non sarebbero fallite. Nel 2014 un articolo uscito su Repubblica censiva una quarantina di unità produttive in Italia, con una sopravvivenza del 70%. Non sappiamo cosa riserverà il futuro agli ex operai diventati cooperatori, la crisi è dura per tutti. Per ora sono segnali da prendere in considerazione, visto che per l’economia classica (quella che domina incontrastata a Bruxelles, nelle Università e sui media “mainstream”) sono eresie che dovrebbero evaporare con la stessa velocità delle bolle di sapone. Così non è successo in Argentina, dove molte cooperative di ex operai hanno dato risposte, piccole ma significative, dopo la catastrofe economica e sociale che si è abbattuta sul Paese sudamericano nel 2001.
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